Il dibattito teorico e politico su centralizzazione e decentramento

1. Introduzione

Buongiorno Eminenza, buongiorno a tutti. Ringrazio Giancarlo Cattai per avermi invitato a parlare di un problema di grande interesse anche se molto complesso sia dal punto di vista teorico che attuativo. Questo intervento ricorda le diverse forme di governo: unitario accentrato e decentrato (ove il decentramento consiste nell’attribuzione di poteri politici, finanziari o amministrativi alle istituzioni periferiche ovvero agli enti sub-centrali di governo), e poi il governo federale e quello confederale. Successivamente si fa riferimento alle teorie principali del decentramento per concludere con alcune considerazioni sul Titolo V della Costituzione che, in nome del decentramento amministrativo e fiscale ha introdotto nuovi articoli 114-132 a favore delle autonomie e del coordinamento tra livelli di governo abrogandone altri (ex 115, 124, 128, 129, 130).

2. Governo centrale, decentramento, governo confederale e federale

Secondo lo storico napoletano Pasquale Villari, l’approccio alla cultura amministrativa di derivazione francese, e cioè la preferenza per la centralizzazione (con l’estensione al neonato Regno d’Italia delle norme dello Stato Sabaudo introdotte nel 1859 da Urbano Rattazzi) anziché per una unificazione “federale” del Paese, è forse il peccato originale dell’Italia nel momento della sua unificazione.

A differenza dello stato unitario, quello federale è uno stato formato da enti locali e regioni autonomi uniti da un patto federativo; la federazione, che ha sempre una costituzione scritta, ha poteri sia sugli enti sub-centrali di governo che sui cittadini.

Infine, a differenza della federazione, la confederazione è un patto che non dà luogo ad un solo Stato, infatti, quelli che vi aderiscono mantengono la propria sovranità e autonomia anche se hanno generalmente. interessi convergenti su altri piani, come quello internazionale.

Un governo federale nasce in due modi:

  1. Per patti di aggregazione tra governi indipendenti (USA, Australia, Germania);
  2. Per scissione di uno Stato originariamente unitario (Belgio) laddove forme più deboli di decentramento non erano risultate adeguate placare i conflitti tra valloni, fiamminghi e germanofoni. Questo era il processo invocato venti anni fa (1993) dalla Lega Nord che proponeva un Federazione italica composta da tre regioni: la Padania, l’Etruria, la Mediterranea, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche.

2.1 La teoria di Musgave e i teoremi di Tiebout e Oates

Nella dialettica istituzionale tra Stato e Mercato, entrambi visti come strumenti e non come beni in sé – lo ha già ricordato Padre Occhetta -, il libero mercato (quello smithiano ad esempio) è associato a una filosofia di laissez faire per potersi sviluppare meglio dimenticando però i suoi importanti fallimenti micro (esternalità, asimmetria informative, beni pubblici nazionali e i beni pubblici locali di Head) e macroeconomici (disoccupazione, inflazione, crescita, bilancia dei pagamenti). Ovviamente, le esternalità militano a favore dell’accentramento amministrativo, mentre i beni pubblici locali a favore del decentramento.

A questo punto la domanda che ci si pone è quale organizzazione politico- amministrativa, tra quella unitaria centralizzata o quella delle autonomie più o meno federalizzate, si presta meglio ad affrontare questi fallimenti del mercato?

Qui ci viene incontro una nota teoria di Local Public Finance e due teoremi del decentramento che sono molto noti ai cultori della politica economica e della scienza delle finanze.

La teoria è quella di Richard Musgrave, secondo cui, delle tre funzioni economico-fiscali del governo: 1. efficienza nell’allocazione delle risorse; 2. la capacità di stabilizzazione del ciclo economico; 3.la distribuzione delle risorse, solo la prima ha da guadagnare da un sistema decentrato di livelli di governo (Stato, regioni, province, aree metropolitane, comuni, comunità montane), mentre la seconda e la terza sono svolte meglio a livello centrale.

A sostegno della teoria di Musgrave vanno considerati i due teoremi del decentramento di Oates e di Tiebout che, guardando alla proprietà dell’efficienza economica, dimostrano come, date alcune condizioni forti (ovvero non proprio realistiche sull’assenza di esternalità – per cui il principio dell’equivalenza fiscale di Olson congiunto al principio del beneficio conducono a quello della perfetta corrispondenza, la cui osservanza dà luogo a una perfetta separazione delle fonti di finanziamento per i diversi livelli di governo -, il decentramento è la organizzazione che massimizza l’utilità delle preferenze individuali; essa è quindi più efficiente di quella centralizzata in quanto ha tre vantaggi importanti: quello dell’autonomia decisionale nelle politiche locali e nell’erogazione dei beni e dei servizi locali, quello della responsabilizzazione dei policy makers e quello di dare agli enti locali la flessibilità di bilancio.

In conclusione, la teoria ha offerto, ormai da molti anni, un contributo fondamentale nella distribuzione delle funzioni ai diversi livelli di governo. A queste considerazioni si deve aggiungere che i due teoremi fondamentali dell’economia del benessere mostrano – pur nella loro fragilità di proposizioni analitiche, che l’efficientamento di un sistema economico (ovvero il raggiungimento della sua posizione di ottimo paretiano legato alla concorrenza perfetta), per qualsiasi livello di governo, non garantisce una distribuzione politicamente accettabile delle risorse e richiede, anche per questi motivi, l’intervento dello stato centrale.

2.2 Il titolo V della Costituzione e la posizione di Don Sturzo

Ad attirare l’attenzione sul regionalismo differenziato sembra siano stati sinora soprattutto due motivi:

1. l’integrazione della procedura sommaria dettata dall’art. 116 Cost., attraverso l’inedito strumento degli accordi preliminari tra lo Stato e le Regioni interessate;

2. l’individuazione del gettito tributario generato sul territorio regionale da attribuire alle Regioni che acquisiranno le nuove e più ampie competenze previste dal Titolo V della Costituzione del 2001. Ciò è previsto nei nuovi articoli 114-132 (di cui sono stati abrogati gli (ex 115, 124, 128, 129, 130).Questa modifica del testo costituzionale prevede, in dettaglio, il significato che si vuole dare all’autonomia degli enti sotto- ordinati di governo.

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni». Da qui gli elementi di federalismo fiscale nell’ordinamento degli enti locali e il ritorno in auge delle province, con funzioni di area vasta tra le regioni e i comuni. (Di questi livelli sub- centrali di governo si voleva, negli anni passati l’abolizione nonostante fossero previste sia dalla Costituzione del 1948 sia dal Titolo V. Esse corrispondono, salvo alcune eccezioni, all’ambito di competenza delle prefetture.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata, presentato dal ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli della Lega è di fatto una nuova proposta su un tema di cui il partito del Nord Italia parla da anni e che trova nuovo vigore con la riforma del Titolo V. Dopo il via libera al testo della Commissione Affari Costituzionali (con 13 voti favorevoli, sette contrari e un astenuto), ora il disegno di legge approda in aula dove la discussione è prevista il 16 gennaio prossimo. Ma si attende anche la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che punta alla modifica degli articoli 116 e 117 della Titolo V della Costituzione.

Il testo del Ddl 615 riguarda 23 materie di legislazione previste dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, e sottolinea come esse possano essere attribuite alle Regioni “con legge dello Stato su iniziativa della regione interessata”. Per questa ragione si parla di un ossimoro di fatto, il “centralismo regionale” che rischia di far esplodere l’attuale ipertrofia regionale. Insieme alle competenze, le Regioni possono anche trattenere una parte maggiore del loro gettito fiscale che, di conseguenza, non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive.

Questo comma può aggravare le grandi differenze economiche e sociali tra regioni, che rendono particolarmente delicata, e potenzialmente dannosa, l’approvazione di leggi in questo senso. Dannosa perché può acuire le differenze di un paese che soffre di dualismo territoriale sin dall’unificazione, e la cui forbice, che si era stretta nel primo ventennio del secondo dopoguerra, è tornata a riaprirsi nell’ultimo cinquantennio a causa delle occasioni mancate dello sviluppo del Mezzogiorno.

A questo riguardo, i punti più dibattuti riguardano i LEP (Livelli essenziali delle prestazioni), che in base alla Costituzione tutelano i “diritti civili e sociali” di cittadine e cittadini. L’entità dei trasferimenti tra Stato e Regioni andrebbe stabilita prima di tutto in base a un criterio condiviso di spesa standard. Solo successivamente si potrebbero riassegnare le quote di risorse proprie richieste dalle Regioni richiedenti in base all’autonomia differenziata. Questa procedura contribuirebbe anche ad evitare la pericolosa concorrenza fiscale tra enti sub-centrali di governo. Ma la “secessione dei ricchi” non riguarda soltanto la riassegnazione suddetta di risorse proprie alle regioni, bensì la differenza tra servizi locali ricevuti e tasse locali pagate per coprire i costi delle competenze attribuite. Si nota, in questo contesto, che la spesa privata per la Sanità ha raggiunto il 25% del totale.

Si può dire che su questa linea ritroviamo alcuni dei suggerimenti di organizzazione politico-amministrativa invocati da don Sturzo. In economia, Sturzo era un liberale classico (che però rifiutava sia il liberalismo sia il socialismo), denunciava il capitalismo di Stato, dilapidatore di risorse, avversava il centralismo. Ma censurava anche il primo impianto dell’Italia repubblicana del 1948, trovando inadeguata la presenza del regionalismo necessario per consentire un’autonomia ai diversi livelli di governo. Egli sosteneva una cultura di ispirazione cattolica e democratica che si ponesse al servizio della cittadinanza secondo la Dottrina sociale della chiesa e che si occupasse di affrontare il divario economico tra il Centro-Nord e le aree sottosviluppate del Mezzogiorno.

3. Conclusione

Come diceva Luigi Einaudi, vi è “un terreno dei teoremi e uno dei consigli”, nel nostro caso, un terreno del regionalismo amministrativo e uno del regionalismo politico. Il modello di regionalismo amministrativo differenziato che ho appena delineato incontra però qualche seria difficoltà teorica: se i limiti legislativi imposti alle regioni sono costituiti da principi fondamentali della materia o da norme imposte dalle leggi dello Stato a vario titolo – competenza esclusiva ex art. 117.2, norme “trasversali” che incarnano i “valori” costituzionali, competenze assunte in sussidiarietà a tutela degli interessi unitari, ecc. – come si può ammettere che ad essi si deroghi per alcune regioni soltanto, senza che per ciò stesso si vengano a perdere la “fondamentalità” del principio o la “universalità” dell’interesse unitario? La risposta a questa domanda davvero impegnativa non può che essere, politica. L’intesa tra Stato e regione richiesta dall’art. 116.3, secondo un’applicazione adeguata dell’autonomia differenziata servirebbe appunto ad isolare e giustificare la deroga che si introduce. In questo contesto, molti dei principali sindacati hanno deciso di rivolgersi alle Senatrici e ai Senatori perché si tenga la scuola “organo costituzionale” fuori dal processo di regionalizzazione avviato dal Governo.

A sua volta, il regionalismo “politico” differenziato, sebbene sia auspicabile, ben si sposa con i vari tentativi di promuovere un referendum per la secessione o il riconoscimento di una nuova “specialità” regionale; né può ridursi alla sterile – e profondamente sbagliata – rivendicazione del trattenimento totale delle tasse sul proprio territorio. Questo sarebbe un regionalismo che fomenta la disgregazione della Repubblica e che non può che andare a cozzare contro i principi costituzionali.

Ancora di più, entrambi questi regionalismi implicano un duplice rafforzamento della burocrazia nella transizione da un decentramento finanziario amministrativo a uno politico e quindi da una finanza locale derivata a una quasi-autonoma. Lo spirito di corpo dei burocrati, il cui numero e potere viene moltiplicato dai livelli di governo, porta talvolta ad anteporre gli interessi personali a quelli del loro “principale”, ovvero i politici rappresentanti della società civile e la stessa collettività, come ci mostra la teoria della burocrazia. E la burocrazia ostacola le riforme (routine e privilegi) a meno dell’uso di incentivi adeguati (come quelli utilizzati dall’Imperatore Mutsuhito della dinastia Meiji contro i samurai). Gli Stati si reggono su due basi: la politica che determina gli obiettivi e l’amministrazione che applica gli strumenti per raggiungerli e le nemiche principali della burocrazia sono la liberalizzazione e la concorrenza.

La riforma del Titolo V, che ha spostato verso le Regioni capacità di spesa e meccanismi di controllo, creando nuovi centri di spesa sovrapposti a quelli centrali, ha aperto su questi profili il vaso di Pandora.

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