Riportiamo il testo della relazione tenuta il 27 aprile 2023 presso l’Università Bicocca di Milano all’interno del percorso “Messaggeri di legalità: formati contro la mafia”.
Oggi vi parlerò di numeri. Un grande magistrato diceva che se vogliamo trovare la mafia, dobbiamo seguire i soldi ed i soldi sono rappresentati da numeri. Il titolo della relazione riguarda due aspetti: l’equità fiscale e il costo dell’illegalità. In entrambi i casi c’entrano i soldi e ci sono i numeri.
Perché l’equità fiscale? Mi riferisco in particolare a due articoli della Costituzione. Anzitutto il secondo comma dell’art. 3: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La nostra Costituzione non è soltanto un elenco di principi, di diritti e di doveri: è anche un programma politico che ci assegna un preciso compito. Nella società esistono alcune disuguaglianze ed è compito della Repubblica contrastarle, eliminando quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo di ogni persona.
L’altro riferimento è l’art. 2: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Da notare che la solidarietà viene definita come dovere inderogabile. Se non ci sono deroghe, significa che la solidarietà non è un optional, una possibilità, un lusso, ma un obbligo.
Questi riferimenti costituzionali dimostrano come l’equità fiscale sia un aspetto fondamentale della vita politica, economica e sociale.
Perché bisogna pagare le tasse? Permettetemi due citazioni. “Mi piace pagare le imposte: così facendo compro civiltà” (Oliver Wendell Holmes – Giurista americano). “Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute”. (Tommaso Padoa Schioppa – Ministro dell’Economia).
Nella società di solito avvertiamo una visione negativa delle tasse e delle imposte. Invece da queste due citazioni emerge una prospettiva alternativa: le tasse rappresentano la civiltà, poiché sono necessarie per il bene comune.
Se noi oggi siamo qui, è perché sono state pagate le tasse e con quei soldi è stata costruita quest’aula. Semplificando, potremmo affermare che il fisco è uno strumento indispensabile per realizzare i servizi di una società.
“Fisco”, viene dal latino fiscus, che significa cesto: il contenitore che raccoglie i contributi di ogni singolo cittadino o di ogni singolo membro di un gruppo. Guardate ad esempio cosa succede fra gli studenti che abitano insieme, che di solito creano una cassa comune in cui mettono i soldi necessari per le spese comuni. Il fisco nella sostanza è il deposito dove vengono messi i soldi, per poter poi costruire l’università, l’ospedale, la strada, ecc.
La Costituzione ci indica come dobbiamo raccogliere questi soldi tramite l’art. 53: “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Il primo comma dell’art. 53 prescrive che tutti, nessuno escluso, sono tenuti a partecipare alle spese pubbliche tenendo conto della capacità contributiva di ciascuno. Attenzione: nella Costituzione non c’è scritto “in funzione del reddito”, c’è scritto “in ragione della capacità contributiva”. Pertanto, bisogna chiedersi cosa sia effettivamente la capacità contributiva. Ad esempio: una persona che è così ricca da poter evitare di lavorare, deve pagare il fisco anche se non ha un reddito? Poiché dispone di un grande patrimonio, una persona ricca deve dare comunque il suo contributo, tenendo conto della sua capacità di contribuire alle spese comuni, visto che anche lui utilizza le strade, manda i figli a scuola, va dal medico, ecc.?
Il secondo comma dell’art. 53 ci segnala che il fisco deve essere informato a criteri di progressività. La progressività può essere rappresentata con una parabola, mentre la proporzionalità con una linea retta. La differenza tra proporzionalità e progressività è stata un argomento di discussione nell’Assemblea Costituente. Salvatore Scoca, il relatore dell’art. 53 della Costituzione, intervenendo in Parlamento, ha detto: “L’attuale sistema tributario è regolato dall’art. 30 dello Statuto Albertino e basato sul criterio di proporzionalità (…), il che costituisce una grave ingiustizia che danneggia le classi sociali meno abbienti e da correggere in sede di calcolo del reddito complessivo, netto, da quelle spese che provvedono alle loro necessità personali e a quelle dei suoi famigliari, essendo queste spese che concorrono a formare la loro capacità contributiva, così da colpire il reddito nella sua reale misura, applicando una progressività tale che diventi la spina dorsale del nostro sistema tributario”.
La proporzionalità era il criterio utilizzato nei 100 anni precedenti alla Costituzione. Salvatore Scoca sostiene che si tratta di una palese ingiustizia che penalizza i più poveri. Perché, come si legge nella Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana: “non c’è niente di più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali”.
Inoltre, Scoca fa riferimento al reddito netto, cioè al reddito totale detratte le spese che servono alle necessità personali e famigliari; quello che resta è la reale capacità contributiva. Per esempio: se io guadagno 30’000 euro, ma poi per vivere ne spendo 20’000, dovrei pagare le imposte soltanto sui restanti 10’000 euro. Attualmente in Italia non funziona così, ma è opportuno ricordare qual è la prospettiva indicata dall’Assemblea Costituente.
Il secondo comma dell’art. 53 stabilisce che non è giusto applicare a tutti i contribuenti la stessa aliquota: ci deve essere una progressività. Da notare che il criterio della progressività fiscale era già stato accettato due secoli prima anche da Adam Smith, il principale teorico del libero mercato: “non è irragionevole che un ricco debba contribuire in misura superiore alla semplice proporzionalità rispetto al reddito”. Persino il padre del liberismo economico sosteneva che le tasse non dovessero necessariamente essere flat.
A questo punto è utile sapere quanti sono i soldi che entrano nel cesto del fisco. Nel 2022 in Italia il gettito fiscale complessivo è stato di 911 miliardi di euro. Così suddiviso: 301 miliardi di imposte dirette (IRPEF, IRES e altre), 251 miliardi di imposte indirette (IVA, accise, tabacchi, …), 108 miliardi di altre entrate (locazioni, rendite, ecc.) e 251 miliardi di contributi (INPS, INAIL e altri). Dato che il Prodotto Interno Lordo (PIL) dell’Italia nel 2022 è stato di 1.909 miliardi di euro, le entrate fiscali rappresentano quasi la metà dell’intera ricchezza prodotta dalla nazione.
Ho riportato questi dati perché spesso sono ignorati dal dibattito politico. Spesso i parlamentari e i ministri si concentrano su aspetti particolari, ma perdono di vista il generale. Fanno le loro proposte pro o contro le singole spese e forme di entrate, ma non si preoccupano dell’equilibrio generale del bilancio pubblico.
A questo punto dobbiamo fare un po’ di storia, analizzando l’evoluzione delle aliquote fiscali dell’imposta sui redditi. Quando nel 1974 è entrata in vigore l’IRPEF, l’imposta sui redditi delle persone fisiche, la normativa prevedeva 32 scaglioni. Per dare concretezza alla progressività fiscale, era previsto che chi aveva un reddito basso avrebbe dovuto pagare l’aliquota minima, il 10% e man mano che il reddito si accresceva, la proporzione aumentava: 13%, 16%, 19%, ecc., fino ad arrivare all’aliquota più alta del 72%. Attenzione: non è che il contribuente più ricco pagava il 72% di tasse su tutto il suo reddito, ma soltanto in relazione al reddito dell’ultimo scaglione. Per i primi 2 milioni di lire per tutti (poveri e ricchi) veniva applicata la stessa aliquota (il 10%). Da notare che lo scaglione in cui si applicava l’aliquota del 72%, rivalutato al valore di oggi, corrisponderebbe ad un reddito annuo di 3 milioni e 300 mila euro. Perciò pochissimi contribuenti rientravano nello scaglione del 72%, ma il criterio della progressività era evidente. La progressività si potrebbe anche sintetizzare con uno slogan: quanto meno le somme aggiuntive ci servono per le nostre necessità, tanto più dobbiamo versare al fisco per le spese comuni.
Ovviamente si può discutere se un’aliquota del 72% sia comunque eccessiva. Qui ci interessa notare che nel 1974 la forbice tra il primo ed il 32° scaglione era di 62 punti (dal 10% al 72%), mentre attualmente la differenza si è ridotta a 20 punti (dal 23% al 43%). Successivamente sono intervenute varie riforme: dagli iniziali 32 scaglioni del 1974 si è passati a 9 scaglioni nel 1983, a 7 nel 1989, a 5 nel 1998, a 4 nel 2022, mentre nel 2024 si prospetta di passare a 3 scaglioni e si punta in futuro alla flat tax per tutti.
Come si può constatare, negli ultimi 50 anni l’aliquota per i più poveri è aumentata, mentre l’aliquota per i più ricchi è diminuita. Si è mantenuta, quindi, una certa progressività, ma di molto ridotta, più schiacciata, che favorisce sostanzialmente i più ricchi e sfavorisce i più poveri rispetto all’impostazione iniziale. Questa linea involutiva è stata realizzata nel corso dei decenni con lievi differenze tra maggioranze parlamentari. Che fossero governi di destra, di centro o di sinistra: tutti sono andati sostanzialmente nella stessa direzione.
Il principale motivo addotto per giustificare la diminuzione del numero degli scaglioni è la difficoltà di calcolo, sostenendo che più sono gli scaglioni, più è difficile calcolare l’imposta da applicare al reddito. In realtà si potrebbe evitare di utilizzare gli scaglioni, applicando una funzione continua, che consenta un automatico incremento dell’aliquota in relazione ad un aumento del reddito imponibile. Questo metodo viene attualmente utilizzato in Germania per il calcolo delle imposte. Per i contribuenti tedeschi, che hanno un reddito tra 14’000 euro e 57’000 euro, si applica un’aliquota media variabile dal 24% al 42%. Il fisco tedesco mette a disposizione un pagina web in cui il contribuente inserisce la cifra del proprio reddito e il sistema in automatico calcola l’imposta da pagare.
Pertanto chi ha un reddito di 14’000 euro paga il 24% di imposta, chi ha un reddito di 57’000 euro paga il 42% e per tutte le posizioni intermedie l’aliquota media varia e si adegua alla cifra del reddito. Per esempio, chi ha un reddito di 36’000 euro, paga il 35% di tasse. Non è difficile: uno studente delle scuole superiori è in grado di programmare una funzione di questo genere.
In Germania utilizzano la progressività continua, mentre in Italia continuiamo ad utilizzare gli scaglioni con i salti di aliquota. Infatti in Italia attualmente abbiamo 4 aliquote: 23%, 25%, 35% e 43%. Di conseguenza per il reddito che supera € 28’000, l’aliquota passa dal 25% al 35%, con un salto di 10 punti che non è lineare e non è giustificato.
L’imposta sui redditi delle persone fisiche si applica, oltre che a livello nazionale, anche a livello regionale e comunale, attraverso le addizionali IRPEF. In Regione Lombardia, ad esempio, le aliquote si riferiscono agli stessi scaglioni nazionali con questa sequenza: 1,23%, 1,58%, 1,72% e 1,73%. Come si può notare a livello regionale l’aliquota più elevata è circa il 40% più alta della prima aliquota, mentre a livello nazionale la differenza è circa del 90%. Ciò significa che l’imposta regionale ha una progressività assai minore. Non solo: l’ultima e la penultima aliquota regionale sono quasi identiche. In questo modo di fatto a tutti i redditi superiori a 28’000 euro viene applicata quasi una flat tax.
L’IRPEF comunale dipende – seppure entro certi limiti – dalle scelte dei singoli comuni. Ecco due esempi molto diversi. Mantova ha stabilito una quota esente fino a 23’000 euro; oltre questa soglia di reddito si applicano tre aliquote: 0,39%, 0,62% e 0,80%. In questo caso la progressività è ben presente. Invece Bergamo applica a tutti la stessa aliquota: 0,80%. Così facendo Mantova contribuisce ad aumentare la progressività complessiva dell’IRPEF, mentre Bergamo la diminuisce, utilizzando una vera flat tax comunale.
Se teniamo conto dell’involuzione delle aliquote nazionali, dello schiacciamento di quelle della Lombardia e della flat tax di comuni come Bergamo, ci accorgiamo di quanto il criterio della progressività oggi sia stato compresso e persino svilito.
Ad aggravare la situazione è il fatto che l’IRPEF per scaglioni di reddito non si applica a tutti i contribuenti. Infatti, per i lavoratori autonomi è stata introdotta una tassazione proporzionale, ossia ad aliquota unica, per redditi fino a 30’000 euro. In seguito la soglia è stata alzata a 65ì000 euro e attualmente ha come limite 85’000 euro. Di conseguenza, un lavoratore autonomo che ha un reddito di € 85’000, attualmente paga € 12’750 di tasse, cioè un’aliquota proporzionale del 15%. Invece, un lavoratore dipendente con identico reddito paga € 31’600 di imposta IRPEF, utilizzando le aliquote a scaglioni. È vero che ci sono delle differenze tra lavoratore dipendente e autonomo, perché magari il lavoratore autonomo ha delle spese in più; ma questo gli viene già riconosciuto attraverso una riduzione (in genere del 22% o del 33% in base all’attività svolta) dell’imponibile sul quale si calcola la tassazione. È evidente come questa notevole differenza di trattamento fiscale a parità di reddito sia ingiusta e inaccettabile.
C’è poi un altro problema: la diversità di trattamento fiscale tra persone fisiche e persone giuridiche. Le persone fisiche, i singoli contribuenti, pagano le imposte sui redditi, cioè sul reddito lordo, con limitate deduzioni o detrazioni per alcuni tipi di spese, come ad esempio per la sanità o per figli a carico. Di fatto non è possibile sottrarre dai redditi tutte le spese effettivamente sostenute per nutrirsi, vestirsi, ecc. Invece, per le persone giuridiche viene utilizzato il criterio del reddito netto. Le imprese – giustamente – non pagano le tasse sui ricavi, ma sugli utili. Una società che ha 1 milione di euro di ricavi e 800’000 euro di spese, paga le tasse sui 200’000 euro di utili. Questa diversità di trattamento tra persone fisiche e persone giuridiche è irragionevole.
È opportuno qui sottolineare che tutta la nostra Costituzione è basata su una concezione personalistica delle relazioni, cioè un’idea di società che si fonda sulla persona. Pertanto è paradossale che il sistema tributario tenga in considerazione più l’impresa che la persona.
Le imprese pagano le imposte sugli utili con l’applicazione di una tassa proporzionale: i singoli lavoratori autonomi pagano il 15% (IRPEF), le persone giuridiche pagano il 24% (IRES). In realtà le società attualmente devono pagare anche l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive), con un’aliquota inferiore al 4%, ma l’attuale Governo ha previsto di abolire questa imposta. È opportuno ricordare che l’IRAP è la principale tassa regionale che finanzia il sistema sanitario. Ad oggi non è chiaro come le Regioni potranno compensare la perdita del gettito dell’IRAP preannunciata dalla riforma fiscale.
Il fatto che le imprese paghino un’imposta del 24% uguale per tutte, comporta che una società con un utile di € 30’000 paghi il 24% di tasse, così come una società con un utile di 30 milioni di euro, cioè con un utile mille volte superiore alla precedente.
Negli Stati Uniti, per fare un paragone, il sistema fiscale è strutturato in modo diverso.
Negli USA attualmente sono previste 7 aliquote per le persone fisiche e 8 aliquote per le persone giuridiche. Le aliquote per le società vanno dal 15% al 39% sulla base degli scaglioni, così come avviene per i singoli contribuenti.
Tra l’altro, Milton Fridman, l’economista americano considerato il principale teorico della flat tax, aveva ammesso che la sua proposta non sarebbe mai stata applicata in America e così in effetti è stato.
Nonostante tutto ciò, c’è chi continua a sostenere che in Italia le imprese siano tassate in modo eccessivo. In realtà i dati Eurostat rivelano che nel 2018 il gettito proveniente dalla tassazione dalle società in Italia era inferiore al 2% del PIL. In Francia e in Germania il gettito era quasi al 3% del PIL, in Olanda in percentuale era il doppio dell’Italia, mentre in Belgio era superiore al 4% del PIL.
Analizzando le imposte indirette, la tassa più importante è l’IVA. Si tratta di un’imposta proporzionale sui consumi. L’aliquota ordinaria in Italia è al 22%. Per alcuni beni di prima necessità (per esempio il pane) o per alcuni servizi (per esempio il ristorante) è prevista un’aliquota ridotta (del 4%, 5% o 10%). Quando è stata introdotta l’IVA, nel 1972, l’aliquota ordinaria era del 12%; con il passare degli anni è sempre aumentata ed attualmente è quasi raddoppiata.
Dagli economisti l’imposta sui consumi viene considerata regressiva, sulla base del fatto che chi è più povero tendenzialmente spende tutto quello che guadagna e di conseguenza paga l’IVA su tutto il reddito, mentre chi è ricco paga l’IVA soltanto sulla porzione di reddito che utilizza per gli acquisti, con la possibilità di accantonare e investire la parte rimante di reddito. È vero che la Costituzione tutela il risparmio, ma così facendo si rischia di tutelare soltanto i risparmiatori ricchi. Per questa ragione in Costituzione è stato inserito il criterio della progressività, per riequilibrare il sistema tributario altrimenti sbilanciato a favore dei più abbienti.
Attualmente in Italia una multa per divieto di sosta è uguale per tutti. Una persona ricca ed una povera pagano la stessa tariffa. È giusto? È del tutto evidente che l’ammontare di una sanzione uguale per tutti non implica lo stesso sacrificio. Di fatto si penalizzano i più poveri, mentre i più ricchi, disponendo di maggiori risorse, possono permettersi di ripetere la violazione senza particolari problemi.
In Norvegia la sanzione è correlata alla capacità contributiva di chi ha violato la norma stradale. Ad esempio, Caterina Andersen, considerata la donna più ricca della Norvegia, recentemente ha dovuto pagare una multa per eccesso di velocità, che è stata stabilita in relazione al suo patrimonio, valutato un miliardo di euro. Di conseguenza la multa è stata calcolata in 25’000 euro. Ciò nonostante in Norvegia c’è chi ha protestato, sostenendo che la sanzione era insufficiente. Purtroppo in Italia non ci si pone nemmeno la domanda se sia giusto che le multe vengano pagate da tutti con la stessa cifra.
In Assemblea Costituente Salvatore Scoca in merito alla tassazione ha fatto riferimento al “reddito complessivo”. Il presupposto era che per ciascuno venissero sommati tutti i redditi e applicata l’imposta sul totale. La capacità contributiva anzitutto deve essere basata sul cumulo dei redditi, indipendentemente dall’origine: da lavoro, da rendita, da locazione, da capitale, ecc.
In Italia, invece, attualmente la maggior parte delle tipologie di redditi sono tassate separatamente, in modo proporzionale, senza cumulo: per esempio sugli interessi bancari o sulle plusvalenze si paga il 26%; sulle cedole dei titoli di stato il 12,5%; sulle cedolari delle locazioni il 10% o il 21%, a seconda del territorio in cui è ubicato l’immobile.
Tutto ciò comporta che le persone più ricche tendenzialmente paghino imposte con percentuali più basse rispetto al ceto medio. Ciò è possibile perché i più ricchi in genere dispongono di patrimoni diversificati: azioni, titoli di stato, appartamenti, ecc. Dato che si tratta di redditi non cumulabili, la tassazione media risulta inferiore al primo scaglione dell’IRPEF, che è al 23% per redditi fino a 15’000 euro.
In Italia si pagano molte imposte dirette e indirette, sui redditi e sui consumi, ma poche tasse sui patrimoni. Si tratta di circa 40 miliardi di euro su 911 miliardi di euro di entrate: meno di un ventesimo. Eppure il patrimonio degli italiani è molto consistente. Gli Italiani sono tra i più ricchi d’Europa e del mondo, con un patrimonio, stimato dall’ISTAT e dalla Banca d’Italia, che supera i 10’400 miliardi: circa metà sono relativi al valore degli immobili e metà sono liquidità (contante, depositi bancari, titoli di stato, azioni, ecc.).
La Banca d’Italia ci informa che alla fine del 2022 il debito pubblico italiano ammontava a 2’762 miliardi di euro. Il che è una cifra enorme, ma il patrimonio privato degli italiani è quasi quattro volte più elevato del debito pubblico; anche solo la liquidità dei contribuenti italiani è il doppio del debito pubblico. L’Italia ha il più grande debito pubblico d’Europa, ma gli italiani – mediamente – sono tra i cittadini europei più ricchi.
Una domanda sorge spontanea: forse noi italiani abbiamo pagato meno tasse di quelle che avremmo dovuto e ci siamo tenuti più soldi in tasca? Siamo così ricchi perché abbiamo impoverito lo stato?
In Italia ogni anno viene stimata un’evasione fiscale superiore ai 100 miliardi di euro. Il bilancio dello stato – prima della pandemia – chiudeva ogni anno con un deficit di circa 40 miliardi di euro. Detto in un altro modo: la cassa comune ogni anno ha un buco di 40 miliardi di euro, mentre alcuni italiani nascondono nelle proprie tasche 100 miliardi di euro. È stato calcolato che dal 1980 ad oggi sono stati sottratti al fisco come minimo 3ì000 miliardi di euro. Senza evasione fiscale in Italia il debito pubblico non esisterebbe. Ma chi sono gli evasori?
Dalla Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva pubblicata nel 2022 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) risulta che il tasso di evasione dei tributi dei lavoratori dipendenti è del 2,8% (probabilmente qualche prestazione in nero dopo il lavoro o qualche straordinario pagato in nero); invece la propensione all’evasione fiscale dei lavoratori autonomi è del 68,3%, con tendenza in aumento negli ultimi anni (nonostante la flat tax al 15%). Si tratta di un livello di evasione fiscale elevatissimo: 2 euro su 3 dai lavoratori autonomi non vengono dichiarati al fisco!
L’evasione fiscale pro-capite annua dei contribuenti italiani supera 3’000 euro, con una pressione fiscale al 43%. Talvolta in Italia si cerca di giustificare l’evasione sostenendo che è causata da una pressione fiscale eccessiva. In realtà la pressione fiscale in Italia è molto vicina alla media degli stati europei. La differenza sta nel fatto che l’evasione media dei cittadini degli altri stati dell’Europa è circa la metà rispetto a quella degli italiani.
Ovviamente se tutti pagassero onestamente le imposte, le tasse potrebbero anche diminuire, ma occorre tener conto che l’Italia deve pagare anche molti interessi sul debito pubblico: 66 miliardi di euro nel 2022.
Nel Documento di Economia e Finanza (DEF), che è stato presentato ad aprile 2023 dal Governo, si prevede che tra pochi anni gli interessi sul debito pubblico supereranno 100 miliardi di euro annui. In percentuale gli interessi aumenteranno dal 3,5% a 7,1% del PIL, cioè oltre il doppio. Si tratta di uno spreco di risorse enormi, dovute al debito che si è accumulato, a causa del fatto che qualcuno non ha pagato le tasse dovute. Risorse che verranno sottratte alle spese comuni.
Il DEF stima che nel 2070 il nostro debito pubblico corrisponderà al 165% del PIL (attualmente è a 145%). Non solo: se il tasso d’immigrazione diminuisse del 30%, il debito pubblico supererebbe il 200% del PIL.
A questo punto vorrei affrontare più direttamente il tema dell’illegalità. Come premessa segnalo quali sono stati nel 2021 i fatturati delle principali aziende italiane (fonte Mediobanca). Anzitutto le Assicurazioni Generali con 99,9 miliardi di euro; poi abbiamo Enel con 88 miliardi e Eni 76,6 miliardi: a seguire le banche Intesa con 20,8 miliardi e Unicredit con 18 miliardi di fatturato annuo.
Secondo la stima della Commissione Parlamentare Antimafia in Italia le mafie hanno ricavi pari a 150 miliardi euro all’anno. Di conseguenza le mafie sono di fatto la prima “impresa”, con un fatturato superiore del 50% alle Assicurazioni Generali e simile a quello di Enel ed Eni messi insieme.
Non solo: mentre le normali aziende hanno una redditività relativamente bassa, cioè gli utili di solito sono inferiori al 10% del fatturato, le mafie producono guadagni elevatissimi. Secondo Confesercenti, infatti, le mafie hanno un utile del 70% rispetto al giro d’affari; quindi si tratta di oltre 100 miliardi all’anno di guadagno netto: una cifra enorme.
A conferma della forza economica delle mafie, attualmente sono 50’000 i beni confiscati alle mafie, secondo i dati forniti dall’Agenzia nazionale per i beni confiscati e sequestrati. La Lombardia è al quinto posto della graduatoria per regioni, con oltre 3’600 tra aziende e immobili confiscati.
L’illegalità in Italia ha un giro d’affari rilevante. Ecco i dati rilevati da diverse fonti:
prostituzione 3,9 miliardi di euro; abusivismo edilizio 5 miliardi; traffico illegale di rifiuti 8,8 miliardi; spaccio di stupefacenti 22,5 miliardi; gioco d’azzardo illegale 23 miliardi; agromafie 24,5 miliardi; lavoro irregolare 42 miliardi (con l’evasione di 25 miliardi); corruzione 60 miliardi, ecc. Secondo l’Istat, fra il 2017 e il 2020 il valore medio dell’economia sommersa è stato pari a 200 miliardi di euro all’anno.
In conclusione, il costo dell’illegalità in Italia è enorme e si può indicare in centinaia di miliardi di euro che ogni anno vengono sottratti al cestino del fisco. Una sottrazione di risorse che penalizza soprattutto le fasce più deboli già colpite da un sistema tributario iniquo. Di fatto si tratta di un tradimento della Costituzione.
Il primo passo per cambiare è prenderne coscienza.