Dato che questa faccenda del PNRR (acronimo di Piano nazionale di ripresa e resilienza) sta diventando una commedia degli equivoci sarà meglio fare un po’ di chiarezza, partendo dall’inizio (saremo brevi, promesso).
L’Unione europea aveva risposto alla crisi pandemica con il Next Generation EU, una sorta di «Piano Marshall» molto, ma molto più ambizioso, che prevede investimenti e riforme per sostenere la ripresa (due punti di PIL all’anno), favorire l’occupazione, accelerare la transizione ecologica e digitale, migliorare le condizioni e la formazione dei lavoratori europei, compresa l’equità di genere (come è noto le donne guadagnano meno degli uomini a parità di impiego). Uno degli strumenti per applicare il Next generation EU (che sta per European union) è appunto il PNRR, per il quale Bruxelles ha stanziato risorse per 191,5 miliardi di euro. Nessun Paese ha ottenuto così tanto, se pensiamo che la Spagna, secondo Stato per fondi concessi, ne ha circa la metà. Si tratta di soldi in parte prestati (li dovremo restituire, pur a tassi vantaggiosi) e in parte elargiti a fondo perduto. L’Italia ha integrato l’importo con ulteriori 30,6 miliardi attraverso il Piano complementare, finanziato direttamente dal governo, che ha portato il totale a 222,1 miliardi di euro.
Il Piano italiano si articola in sei missioni:
- digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo;
- rivoluzione verde e transizione ecologica;
- infrastrutture per una mobilità sostenibile;
- istruzione e ricerca;
- inclusione e coesione;
- salute.
Da questa premesse capirete la fibrillazione del mondo politico, sociale ed economico che ruota intorno a questa sigla, a tutti livelli, dalle Regioni alle Province ai Comuni alle ASL: si tratta di una pioggia di denaro colossale, forse la più imponente dal Dopoguerra, che dovrebbe ridisegnare il volto dell’Italia.
Ma l’Europa non ha stanziato questa cornucopia con intenti munifici o per beneficenza, ma li vincola a riscontri ben precisi, che il nostro governo deve dare nei tempi e nei limiti fissati. Deve indicare aree di intervento, tabelle di marcia, investimenti, progetti, piani di realizzazione, di rendicontazione ecc. Naturalmente questa torta è sottoposta a mille appetiti, anche quelli delle mafie, per cui sono necessari anche i controlli della magistratura amministrativa, penale e contabile, come la Corte dei Conti. Lo prevede pure un decreto del 2021.
E qui nasce la polemica, perché il Governo Meloni ha dimostrato di essere piuttosto insofferente alle prerogative dell’organo di vigilanza in materia contabile. Cosa che a sua volta ha infastidito Bruxelles. Le ultime dichiarazioni però sono all’insegna del «volemose bene». Sul PNRR, dicono i portavoce della Commissione, sono in corso «scambi costruttivi». E anche Roma fa sapere che «forniremo tutte le informazioni necessarie». Domani o dopo dovrebbe essere presentato il quadro definitivo degli interventi e degli investimenti della terza rata del Piano. Insomma, mancano solo le rose e i violini.
Quanto alla Corte dei Conti, è evidente che a una grande disponibilità di risorse concentrate in breve tempo devono corrispondere controlli adeguati. Invece accade che il governo li contesti, con la solita scusa che bisogna fare in fretta e avere le mani libere, contrapponendo una cabina di regia ad hoc (ma il controllato non può fare anche da controllore) e parlando di polemiche «strumentali» in vista delle elezioni del Parlamento europeo.
Contemporaneamente, fuori da Palazzo Chigi, qualcuno pretende di alleggerire la responsabilità per i funzionari infedeli e lo sperpero del denaro pubblico. Se aggiungiamo il fatto che da tempo si annuncia l’abolizione del reato di abuso di ufficio e una revisione di quelli di corruzione, allora qualche motivo di preoccupazione c’è su un potenziale e temuto «sacco del PNRR». E anche le rose e i violini europei non convincono, perché l’Italia rischia di diventare come l’Ungheria e la Polonia: un’osservata speciale sullo Stato di diritto.