Confermò l’applicazione dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), ossia deficit pubblico al di sotto del 3% del PIL e debito pubblico non superiore al 60% del PIL. Ribadì che gli Stati membri non rispettosi di questi criteri dovessero essere sottoposti alla «procedura per deficit eccessivo». Fino ad oggi la Commissione ha avviato varie procedure d’infrazione, ma nessuna procedura ha mai portato a una sanzione. Nel 2011, in presenza di un consistente livello del debito pubblico europeo, fu introdotto il «Fiscal Compact» (patto di bilancio), con la finalità di avviare un più celere rientro del debito dei vari Paesi attraverso l’inserimento nelle Costituzioni nazionali di alcune clausole, quali: obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio; obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL; riduzione del rapporto debito pubblico-PIL, pari ogni anno a un ventesimo della parte eccedente il 60% del PIL; impegno a coordinare i piani di emissione del debito con gli organi europei.
Il Fiscal Compact, soggetto oggi a molte critiche perché considerato eccessivamente rigido, fu approvato rapidamente dal nostro Parlamento senza un doveroso approfondimento. La sua applicazione è stata sospesa a seguito dei problemi economici e sociali provocati dalla pandemia ed è stata prorogata nel maggio scorso fino alla fine del 2023 per le condizioni di estrema incertezza determinate dall’invasione russa dell’Ucraina e dall’aumento dell’inflazione. In previsione di questa scadenza, lo scorso novembre la Commissione ha presentato una nuova proposta di modifica del PSC che si propone di «contemperare la stabilità con la crescita». Di fatto, però, la proposta conferma il rispetto dei parametri in vigore senza tener conto che attualmente il debito di quasi tutti i Paesi è prossimo o superiore al 100%.
Da qui la richiesta di questi Paesi, tra cui Francia e Italia, di prevedere un sensibile aumento del parametro del 60% del PIL, nonché un allungamento dei termini per il rientro dal debito per approfittare di possibili fasi di crescita sostenuta. Per un Paese come il nostro, che ha un debito pubblico intorno al 145% del PIL, il mantenimento del rientro al 60% del rapporto debito-PIL in vent’anni implicherebbe l’adozione di manovre finanziarie così restrittive da impedire la destinazione di sufficienti risorse per la crescita. Trovare un accordo tra i vari Paesi che concili «stabilità e crescita» sembra assai arduo perché Germania e Olanda pongono in primo piano l’esigenza della stabilità. La Commissione si appresta ad avanzare alcune modifiche, richieste dai Paesi in disavanzo eccessivo, tra cui il nostro, improntate a una maggiore flessibilità che, da quanto è dato sapere, terrebbero conto della «sostenibilità» del debito e introdurrebbero un criterio annuo di calo del debito dello 0,5%, su cui si oppone la Germania.
Sull’opportunità di adottare criteri di maggiore flessibilità si batté, a suo tempo, Guido Carli nel corso del negoziato per il Trattato di Maastricht. L’allora ministro del Tesoro, già Governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, riuscì, in virtù della propria autorevolezza, a fare inserire nel testo del Trattato la clausola del 3% del PIL, onde consentire agli Stati più indebitati un più graduale avvicinamento al 60% del rapporto debito-PIL. Questo criterio di convergenza graduale, che consentì all’Italia di entrare in Europa, garantiva la flessibilità necessaria per osservare il rispetto della sostenibilità della finanza pubblica senza soffocare la spesa per investimenti, indispensabile per la crescita. In realtà, di questa flessibilità l’Italia non ha saputo giovarsi. Oggi, Giorgia Meloni è determinata nel sostenere che «sarebbe tragico tornare ai parametri precedenti» annunciando «una lotta serrata in sede di trattative». Purtroppo, in quella sede non ci basterà «battere i pugni sul tavolo», perché ci presenteremo poco credibili non avendo tenuto in alcun conto la lezione di Guido Carli di cui quest’anno ricorre il trentennale della morte.