«Il deficit pubblico è grande abbastanza da badare a se stesso». La freddura del presidente statunitense Ronald Reagan risale al 1984, e nel prossimo mese di campagna elettorale nessun politico italiano sarà in condizione di ripeterla facendo ridere qualcuno. Deficit e debito pubblico del nostro Paese sono «grandi abbastanza», non c’è dubbio, ma la loro sostenibilità dipende da tutto quello che ruota loro attorno. Per capire il perché, ripercorriamo cosa è accaduto negli ultimi tre anni.
Nel 2020 lo Stato italiano ha avuto all’improvviso necessità di risorse pubbliche ingenti per fare fronte all’emergenza pandemica e al congelamento della nostra economia indotto dai lockdown. Un’esigenza che ha investito molti Paesi occidentali, in un momento in cui per fortuna il costo dell’indebitamento era bassissimo, anche grazie al generoso sostegno delle Banche centrali, tra tassi di interesse a zero e politiche monetarie non convenzionali. Il debito pubblico italiano è così aumentato dal 134,1% al 155,3% senza causare alcuna fibrillazione finanziaria.
Nel 2021 la situazione attorno al nostro debito aveva già iniziato a cambiare. Lo Stato aveva ancora l’esigenza di puntellare settori specifici dell’economia e alcune fasce sociali, ma nel frattempo la crescita si era rimessa in moto fino a raggiungere ritmi ragguardevoli. Il Pil, a fine anno, è salito del 6,6%. Uno sviluppo così robusto è stato decisivo, anche attraverso un progressivo aumento delle entrate tributarie e contributive, a far diminuire il rapporto debito pubblico/Pil dal 155,3 al 150,8% in un anno.
Dall’inizio del 2022, si è delineato uno scenario ancora diverso. L’impennata dei costi energetici, aggravata dall’invasione russa dell’Ucraina, e il rialzo generalizzato dei prezzi che ne sta seguendo hanno spinto il Governo Draghi a nuovi e sostanziosi interventi in aiuto delle fasce più deboli della popolazione e delle imprese energivore, dal taglio delle accise sui carburanti ai bonus bollette, passando per i crediti d’imposta. In pochi mesi sono stati stanziati così almeno 30 miliardi di euro, un ammontare comparabile a quello dell’ultima legge di Stabilità, stavolta facendo di tutto per non incrementare il debito. Anche perché nel frattempo l’economia del Paese ha cominciato a rallentare e il costo dell’indebitamento sui mercati mondiali ha preso inesorabilmente a salire. Il rialzo dei tassi di riferimento deciso dalla Federal Reserve a marzo, seguita a giugno dalla Banca centrale europea, ha messo infatti fine alla cosiddetta epoca del «denaro facile» per gli Stati.
In soli tre anni, per sintetizzare, tre scenari diversi hanno modificato le prospettive di sostenibilità del nostro debito pubblico; siamo passati da una situazione, all’insorgere della pandemia nel 2020, di forte indebitamento a bassissimo costo, a una situazione nel 2022 di minore indebitamento ma a costi crescenti. Non a caso, mentre il debito pubblico italiano ha segnato a giugno il suo massimo storico, 2.766 miliardi di euro – confermandosi come il secondo più grande dell’Eurozona in rapporto al Pil – i rendimenti sui nostri titoli di Stato stanno salendo.
Nei prossimi mesi, il contesto cambierà ancora, non necessariamente in modo favorevole alla sostenibilità del nostro debito. Le Banche centrali occidentali proseguiranno sulla strada del rialzo dei tassi, rendendo più costoso per tutti prendere denaro a prestito sui mercati. Una tendenza che, sommata all’inflazione, alla strozzatura delle catene globali del valore e all’incertezza geopolitica, contribuirà a frenare crescita e occupazione. Indebitarsi tornerà dunque a essere più rischioso, proprio nel momento in cui per molti Governi potrebbe acuirsi il bisogno di reperire risorse fiscali extra. Risorse destinate ad aiutare cittadini e aziende alle prese con il caro energia, per esempio, oppure a rendere meno traumatici processi di trasformazione quali il «reshoring» per accorciare le catene produttive o l’innovazione in settori strategici finora «esternalizzati» come avviene per transizione ecologica e produzione di microchip.
A poter cogliere sfide simili saranno gli Stati in grado di dedicarvi risorse (anche fiscali) maggiori, quelli con i conti in ordine, quelli insomma non costretti a «badare» con tutte le loro forze e attenzioni al proprio debito pubblico. Fin dalla campagna elettorale, sarà utile tenerlo a mente.