Se c’è una cosa che il governo Draghi lascia in eredità alla democrazia italiana è l’indicazione delle coperture finanziarie per i provvedimenti di spesa. Per sostenere le famiglie e le imprese contro l’inflazione e il rincaro dei carburanti e delle bollette il governo di Roma non ha esitato a prelevare dove era necessario ed eticamente corretto: da chi guadagnava vendendo energia elettrica delle rinnovabili al prezzo decuplicato del gas.
Un’azione non così semplice. Al governo tedesco per esempio non è riuscita. Eppure il ministro dell’Economia di Berlino è un verde e neanche uno qualsiasi. È il copresidente del partito ecologista. Questo per dire che la lobby energetica sa far fronte alla politica. C’era però un punto dirimente: il governo Scholz è nuovo, non ha esperienza e manca di carisma. Quel che ci vuole in politica è soprattutto credibilità. Vuol dire semplicemente questo: i cittadini si fidano. Se il capo dell’esecutivo sa di poter contare sulla fiducia dell’opinione pubblica non vi è potentato che vi si possa opporre. Mario Draghi ha prestato credibilità personale e internazionale al suo Paese. Il risultato è che le emergenze sono state affrontate e senza spese fuori bilancio.
Il debito è rimasto sotto controllo ed è anche diminuito per effetto della forte crescita. In un anno e mezzo all’Italia è riuscito di riacquistare certezza del proprio ruolo in Europa e nel G7. Sorge spontanea la domanda: è quindi l’esperienza Draghi un caso limite in un Paese che ha avuto 67 governi in 76 anni di vita repubblicana? L’instabilità istituzionale non aiuta l’azione di governo. A volte diventa indispensabile un surplus di credibilità. Queste elezioni hanno come tema l’efficacia operativa di chi dovrà presiedere il futuro gabinetto. Tutti hanno visto che è possibile governare bene e che anche l’Italia, se vuole, sa essere incisiva. Viene dunque meno il luogo comune di un Paese ingovernabile. Non vi sono dunque più alibi. Se non si riesce ad agire in modo efficace vuol dire che il personale politico non è all’altezza del compito che si prefigge. L’ Italia non primeggia per partecipazione politica. Solo il 10% delle persone superiori ai 14 anni si interessa attivamente della cosa pubblica. L’astensionismo di queste ultime elezioni rende evidente che il cittadino, se le cose vanno male, perde il gusto alla partecipazione democratica. Ma negli altri Paesi non è poi così diverso. Quello che invece fa la differenza è l’attenzione all’operato di governo.
Le nostre elezioni hanno a volte più un carattere folcloristico, di annunci roboanti per attirare l’attenzione mediatica. Da noi i numeri sembrano annoiare. Si guarda più ai caratteri esteriori, alle fisionomie, alle comparsate, la politica intesa come intrattenimento. E in Italia vuol dire improvvisazioni, colpi di scena e anche di genio creativo in breve commedia dell’arte. Un valore assoluto se applicato al teatro, ma limitante se traslato in politica. Ed è un equivoco che l’Italia è chiamata a chiarire. Con la firma del Trattato di Roma del 1957 la Repubblica italiana si è impegnata con i suoi partner europei e ne deve godere la fiducia. È il cosiddetto vincolo esterno. Se si è parte di una comunità occorre condividerne anche gli stili. L’ Europa di cui i partiti in campagna elettorale spesso parlano, altro non è che pratica quotidiana di azione politica. E quindi di metodo. È il «come» che fa la differenza. Se il partito promette deve indicare la copertura finanziaria. Se non lo fa è come giocare a chi la spara più grossa. Chi ha un debito deve rendere conto ai suoi creditori nazionali e internazionali. Sugli obiettivi politici i partiti possono dissentire ma su un punto devono convergere: sulla credibilità per raggiungerli.