Nonostante l’aumento esponenziale delle vendite on line indotte dalla pandemia Amazon Eur Sarl, il colosso “e-commerce”, ha chiuso il proprio bilancio 2020 con una perdita di 1,2 miliardi di Euro. Tale risultato gli ha permesso di pagare zero imposte. La notizia, divulgata qualche giorno fa dal quotidiano britannico The Guardian, ha suscitato non solo stupore, ma anche imbarazzo da parte della Commissione Europea, che ha annunciato la pubblicazione di una comunicazione e l’impegno ad avviare un negoziato con i partner internazionali sull’equa tassazione delle imprese e sulla concorrenza fiscale. Impegno non agevole per l’Unione Europea perché riguarda uno dei suoi stati membri, il Lussemburgo, già oggetto di una decisione comunitaria nel 2017 con la quale venivano contestati i vantaggi fiscali per 250 milioni di Euro concessi alla multinazionale da parte del Granducato.
Spostare i guadagni dove più conviene
Una premessa: Amazon vale in borsa quanto il PIL dell’Italia. Da inizio 2020 le sue azioni hanno subito un rialzo del 48% e negli ultimi dieci anni una crescita del 2’220%. Conta filiali in diversi paesi del mondo che gli permettono con modalità piuttosto semplici di spostare, con operazioni infragruppo, i guadagni da dove si realizzano a dove più conviene. La stessa tecnica è utilizzata dagli altri giganti della Silicon Valley come Facebook, Google, Netflix, Apple e Microsoft che, grazie a questi accorgimenti riescono ad evadere imposte per miliardi di dollari.
La spinta più decisa per la realizzazione di un sistema fiscale internazionale è arrivata dal nuovo governo statunitense Biden con la proposta di una tassazione minima del 21% sui profitti delle multinazionali; proposta che dovrebbe essere in grado di far ripartire i negoziati in seno all’OCSE, che finora sono proceduti a rilento proprio a causa dell’opposizione statunitense. La proposta assume anche una connotazione rivoluzionaria, perché è la prima volta che un governo decide di imporsi sulle multinazionali.
La gestione in rosso di Amazon, secondo le dichiarazioni del suo manager, è dovuta a margini di profitto ridotti o, come avvenuto nel 2020, a perdite per effetto della realizzazione di grandi investimenti; situazioni che permettono di sfuggire ad ogni prelievo attraverso la presentazione di un bilancio in perdita. Pratica, quest’ultima, particolarmente diffusa tra le società di capitali e altre imprese italiane già ben prima della crisi economica indotta dalla pandemia. Nel 2011, secondo rapporti elaborati da istituti nazionali di ricerca sulle società di capitale, il 78% di queste (su un totale di circa 800.000 società operative) dichiarava redditi negativi e inferiori ai 10.000 Euro, o non versava imposte. Molte di queste attività erano destinate a chiudersi nel giro di cinque anni per evitare accertamenti fiscali, oppure utilizzavano “teste di legno” tra soci e amministratori o tra persone senza alcun reddito, né competenze. L’evasione stimata corrispondeva a oltre 22 miliardi di Euro all’anno. A distanza di 10 anni la situazione sembra non essere molto diversa.
Dall’IRAP all’IVA e IRPEF: oltre 100 miliardi di Euro “senza traccia”
L’evasione fiscale è una realtà per sua natura nascosta che trova nell’occultamento dell’imponibile la sua ragione e il suo stesso presupposto: per cercare di misurarla dobbiamo affidarci alle stime condotte dalla comunità scientifica e dagli organismi pubblici a ciò deputati, il cui sforzo conoscitivo si basa su metodologie e dati verificabili, piuttosto che su congetture basate su impressioni occasionali. Il sistema principalmente utilizzato, al quale l’Agenzia delle Entrate ricorre normalmente, si basa sulla contabilità nazionale, quale confronto tra di essa e l’imponibile, dove la differenza che emerge rappresenta la base imponibile sottratta a tassazione.
Dati recenti, la cui elaborazione si arresta al 2018, possono trarsi dalla “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva – anno 2020”, relazione che dal 2016 (Dlgs 160/2015) viene allegata alla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza. La situazione che emerge da tale relazione ricalca quella rilevata nel decennio precedente, anche se un confronto puntuale risulta impraticabile per la diversa organizzazione dei dati.
Dalle stime, elaborate si evince che l’IRPEF evasa sui redditi da lavoro autonomo e imprese corrisponde a oltre 31 miliardi di Euro e si concentra nei redditi più elevati. L’IRES – Imposta sui Redditi delle società la cui attuale aliquota è del 24% – risulta evasa, sempre nello stesso anno fiscale, per circa 9 miliardi, derivanti prevalentemente da redditi non dichiarati. L’evasione dell’IVA si attesta su oltre 33 miliardi di Euro, nonostante la riduzione di oltre 3 miliardi rispetto all’anno precedente ed è dovuta all’introduzione di meccanismi di liquidazione dell’imposta che prevede, nei rapporti tra le imprese verso la Pubblica Amministrazione, che sia l’ente pubblico a saldare il debito direttamente all’Erario.
Altro capitolo riguarda l‘IRAP, l’imposta regionale sulle attività produttive, dovuta da tutti coloro che svolgono un’attività di lavoro autonomo, le società semplici e quelle equiparate. Si tratta di 3 milioni e mezzo di contribuenti. Caratteristica di tale imposta è che la sua base imponibile rileva non solo ai fini della stima dell’evasione del tributo, ma rappresenta un indicatore macro del valore aggiunto occultato al Fisco. Essa contribuisce, con il gettito dell’addizionale regionale IRPEF a finanziare il servizio sanitario regionale. La stima della mancata entrata è di poco più di 5 miliardi di Euro. In sostanza dalla Relazione risultano, nel 2018, mancate entrate tributarie per un totale di 96 miliardi di Euro a cui si aggiungono altri 11 miliardi per mancati versamenti contributivi. Più dell’81% del mancato gettito fiscale è imputabile a imprese e lavoro autonomo.
L’Italia è in procinto di ricevere un tesoretto da spendere in sei anni per risollevare la propria economia, non solo provata dalla pandemia, ma da una crisi produttiva che persiste da vent’anni. Le prossime generazioni potranno godere dei frutti di questo tesoretto (non un regalo, ma un debito da onorare), che porterà nelle casse dello Stato qualcosa come 36/37 miliardi di risorse all’anno da spendere per rimettere in sesto il Paese. È stato detto che la realizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, per la sua dimensione finanziaria e per la sua occasione che è unica, rappresenta una sfida per l’intera Europa. Ma lo è anche per la lotta all’evasione, perché è bene tenere a mente che quanto annualmente sottratto alle casse dello Stato ha una dimensione tre volte superiore di quella del PNRR e rappresenta dunque, come il Piano, un’occasione veramente unica per fare davvero e finalmente giustizia.
Fonte: https://www.laportadivetro.org/i-conti-in-rosso-di-amazon-e-quelli-del-fisco-italiano/