Dopo scostamenti di bilancio per oltre 108 miliardi e l’ultimo di 34 miliardi, il debito tenderà ad attestarsi al 160% del PIL, il valore più alto dall’unità d’Italia. Si tratta di un dato analogo a quello raggiunto nel 1920 dopo la Prima guerra mondiale (159%). Allora fu possibile riportare quel rapporto al di sotto del 100% perché l’Italia, «potenza vincitrice», poté utilizzare le riparazioni pagate dalla Germania per saldare il proprio debito. Negli anni successivi il debito si attestò tra l’80 e il 100% del PIL fino alla Seconda guerra mondiale, quando risalì al 120%. In quegli anni il problema fu risolto dall’inflazione, che fino al 1946 ridusse drasticamente di un trentesimo il valore della lira. Alla fine del 1947 l’inflazione fu bloccata con una manovra monetaria restrittiva posta in atto da Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia, che ridusse il debito pubblico al 25% del PIL con conseguenze disastrose per i risparmiatori che avevano acquistato quel debito negli anni precedenti alla guerra.
È evidente come soluzioni di questo tipo siano oggi improponibili. All’ingresso in Europa il nostro Paese si è presentato con un debito pari al 115% del PIL, cresciuto fino ai valori attuali a seguito della sospensione dei vincoli di bilancio decisa dall’Europa fino al 2022 per le comuni difficoltà causate dalla crisi pandemica. Nel frattempo, il governo Conte aveva presentato alle autorità europee un piano di rientro basato su un intenso programma di riforme e investimenti, seguendo le linee d’indirizzo fissate dal «Next Generation Eu», che dovrebbe consentire nel termine di 5-10 anni il ritorno ad un rapporto deficit-PIL vicino a quello registrato prima dell’epidemia (134%). Tale piano, che andrà certamente rivisto dal nuovo governo, è stato ritenuto abbastanza credibile dai mercati. Questi, però, come si sa cambiano opinione repentinamente e nulla ci assicura che politiche monetarie iper-espansive della BCE e tassi d’interesse bassi o addirittura negativi possano durare a lungo. Un elemento determinante sarà rappresentato da un efficace utilizzo dei 209 miliardi messi a disposizione dal «Next Generation Eu», che il nuovo governo dovrà indirizzare verso investimenti caratterizzati da una visione di lungo periodo, in grado di promuovere e favorire una crescita graduale e duratura.
Questi investimenti dovranno essere accompagnati dall’attuazione di riforme che da tempo l’Europa ci chiede, come quelle della pubblica amministrazione, della giustizia, del fisco e della lotta all’evasione e all’economia sommersa, tutte funzionali ad alimentare il processo di crescita. Perché è soprattutto sulla crescita che si fondano le speranze per realizzare una progressiva riduzione del debito. Il recente incontro dei Capi di Stato al Forum di Davos del 20 gennaio scorso, che ha registrato l’assenza dell’ex presidente Conte a causa della crisi di governo, ha segnato l’inizio di una possibile rivoluzione sul tema tradizionale del debito. Il premier francese Macron, auspicando politiche pubbliche indirizzate al superamento delle diseguaglianze attraverso il sostegno ai ceti più colpiti, ha sostenuto che «non si potrà ricostruire niente nel mondo del dopo Covid, se non si prende in considerazione che l’economia è ridiventata una scienza morale, perché abbiamo capito che la vita degli uomini viene prima degli scambi commerciali e delle cifre». Sullo stesso piano si è posta Angela Merkel a cui ha fatto eco il suo braccio destro Hekge Baun, che in un intervento pubblicato su Handelsblatt ha chiesto di mettere da parte nei prossimi anni l’obbligo del pareggio di bilancio sancito dalla Costituzione tedesca dal 2009. Lo stesso obbligo è stato imposto dalla UE a tutti i Paesi europei, compreso il nostro che trarrebbe grande vantaggio da una regolamentazione più flessibile del debito. Senza tuttavia che ciò c’induca a rilassarci, facendoci dimenticare che il nostro rapporto debito/PIL è tra i più elevati in Europa.
(tratto da L’Eco di Bergamo dell’8 febbraio 2021)