Karl Marx e Friedrich Engels nel “Manifesto” del 1848 proposero una imposta patrimoniale: si trattava di una misura transitoria in attesa della socializzazione dei mezzi di produzione, così nel corso degli ultimi 200 anni sono stati molti i lettori del libello che hanno trovato “deludente” da parte dei padri della rivoluzione la proposta di una così tiepida misura riformista. Sul fronte opposto i liberal-liberisti furono vittime del gioco di specchi: Luigi Einaudi, vate del pensiero liberale, era favorevole all’imposta patrimoniale, probabilmente perché allora il reddito era quasi tutto fondiario: ciò non toglie che i suoi ammiratori, un po’ delusi da una misura così radicale e socialista, hanno sempre preferito glissare sull’argomento.
È proprio vero, con l’ideologia dal dilemma della patrimoniale non si esce. Meglio affidarsi alla brutale pratica di conti e convenienze. Sia chiaro: non parliamo della “patrimoniale” a sorpresa, del prelievo forzoso straordinario e una tantum in situazioni di emergenza come quello di Giuliano Amato nel 1992, parliamo invece di una patrimoniale ordinaria, da pagare tutti gli anni, come l’IRPEF. L’hanno proposta come emendamento alla legge di Bilancio alcuni deputati di LeU e della sinistra del PD, mentre il segretario del PD Zingaretti ha preso le distanze così come ha fatto il viceministro del Tesoro Misiani; i grillini si sono detti contrari. La patrimoniale proposta prevederebbe che la tassazione scatti sopra i 500 mila euro (immobili al valore catastale rivalutato più titoli e conti correnti) con una aliquota dello 0,2 per cento per arrivare fino allo 0,5 per cento sopra il milione. La norma prevede anche l’abolizione dell’IMU sulla seconda casa e dell’imposta sui conti correnti: sul gettito c’è qualche ombra, tanto che la Ragioneria in un primo momento aveva stralciato l’emendamento per poi riammetterlo.
Ma al di là dell’aspetto contabile, è una motivazione di politica economica alla Robin Hood che presiede alla patrimoniale: togliere all’1 per cento più ricco per dare ai più poveri. Del resto la correlazione non è una invenzione della sinistra più radicale italiana, anche nel 1989 quando in Francia fu introdotta l’Impôt de Solidarité sur la Fortune – e Thomas Piketty non aveva ancora 18 anni – le risorse erano destinate al reddito minimo d’inserimento. Se la patrimoniale fosse l’unica strada per ridistribuire il reddito molti dei successi del modello europeo, con forte tassazione progressiva sui redditi e ottimi welfare, non sarebbero neppure esistiti. Dice Alessandro Santoro, dell’Università di Milano-Bicocca, in prima linea da sempre nella lotta all’evasione e schierato a favore dell’utilizzo delle banche dati: “In teoria, se vuoi ridistribuire sono preferibili le imposte sul reddito, perché devi tassare il reddito prima delle scelte di consumo e risparmio” e quindi la tassazione del patrimonio non può sostituire le imposte sul reddito. Però in pratica, aggiunge Santoro, “erosione ed evasione rendono la redistribuzione difficile e limitata e la tassazione patrimoniale potrebbe avere un ruolo complementare, se si riuscissero a superare i problemi di misurazione del valore effettivo del patrimonio immobiliare e di possibile elusione dei patrimoni finanziari”.
Sostituire l’IRPEF con la patrimoniale sarebbe dunque folle, e nessuno ci pensa, ma anche l’integrazione presenta problemi. Sembra chiaro che se veramente si vuole tosare in modo giusto e robusto chi guadagna di più, è molto meglio andare sui guadagni e rilanciare una buona tassazione progressiva (magari eliminando l’evasione e riportando nell’IRPEF tanti redditi usciti nel corso degli anni). Tutto ciò per evitare di inseguire l’illusione di trasferire il denaro “inattivo” della rendita alla popolazione “inattiva” (spesso senza riuscirci in pieno come si è visto con il reddito di cittadinanza): molto meglio trasferire parte del reddito di chi produce e guadagna allo Stato che lo trasformi in investimenti e in buone politiche pubbliche.
Anche dal punto di vista dell’efficienza della tassazione l’imposta patrimoniale non sembra riscuotere molto successo. Il viceministro dell’Economia Misiani (PD) si chiedeva nei giorni scorsi perché l’imposta patrimoniale è presente solo in Spagna e Belgio e dal 1990 moltissimi Paesi abbiano fatto marcia indietro: Austria (1994), Danimarca (1997), Germania (1997), Olanda (2001), Islanda, Finlandia e Lussemburgo (2006) Svezia (2007). Unica controtendenza la Spagna che non ha introdotto l’Impuesto sobre el Patrimonio (che esisteva) nei giorni scorsi ma ha solamente aumentato l’aliquota dal 2,5 al 3,5 per cento per i patrimoni sopra i 10 milioni.
Danni collaterali? Come scrive Giuseppe Dallera in un importante volume di studi fiscali, dove elenca pro e contro della patrimoniale, ci sono almeno tre aspetti negativi: scarsa efficacia nella ridistribuzione, costi di gestione molto forti da parte dello Stato, rischio di evasione. Vale la pena esaminare quest’ultimo: “Il tema dell’elusione c’è: i grandi patrimoni finanziari possono sfuggire facilmente alla tassazione attraverso trust e altri meccanismi, tant’è che l’industria bancaria e finanziaria quando mesi fa si era discusso della patrimoniale aveva già cominciato a organizzare incontri con clienti importanti per spiegare i meccanismi elusivi”, osserva Alessandro Santoro.
Stesso problema per quanto riguarda la parte immobiliare dell’imponibile della patrimoniale (circa il 60% della ricchezza): oltre alla possibilità di intestare case a società estere c’è un altro aspetto che mette in luce Simone Pellegrino dell’Università di Torino, autore di una recente storia dell’IRPEF : “Per valutare le abitazioni non si utilizzano i valori di mercato, ma le rendite catastali rivalutate: oltre a sommare le pere con le mele, le rendite catastali sono vecchie e non danno una visione realistica: ci sono case di lusso nei centri storici accatastate come popolari”. Senza contare che con la perdita dell’IMU, dopo lo svuotamento dell’IRAP, ormai il federalismo fiscale è veramente una illusione.
Ma ammesso che la patrimoniale funzioni, è proprio l’Italia il Paese in cui rilanciarla? Secondo il Global Wealth Report del Credit Suisse, in Italia (dati 2019) ci sono 1,5 milioni di persone con almeno 1 milione di dollari di ricchezza complessiva (2,5% della popolazione). In Francia 2,1 milioni (3,1%), in Germania 2,2 (3,7%), negli Usa 18,6 milioni (5,7% della popolazione), in Spagna 1 milione (1%). Tira le conclusioni Massimo Baldini, che insegna Politiche pubbliche all’Università di Modena, tra i più attenti osservatori dei meccanismi del Welfare: “Sempre in Italia, l’1% più ricco della popolazione possiede circa il 22% della ricchezza totale come in Francia, una percentuale che in Germania sale al 30% e negli Usa al 35%. Quindi noi abbiamo meno ricchi rispetto a Francia, Germania e USA in percentuale della popolazione. La diseguaglianza nella ricchezza in Italia è più bassa”. Aggiunge Baldini: “Se fossi negli USA sarei super favorevole a tassare di più le grandi ricchezze, perché i frutti della crescita economica sono andati soprattutto ai più ricchi. In Italia è più complicato perché l’economia è in crisi da decenni e i ricchi sono pochi, quindi non è chiaro se si riuscirebbe davvero ad aumentare il gettito delle patrimoniali attuali (IMU e imposta di bollo, che insieme, secondo i calcoli della CGIA di Mestre, fruttano circa 28 miliardi all’anno, ndr ). Senza contare che abbiamo il problema di attirare capitali, non di aumentare il rischio che se ne vadano quelli che ci sono”.
Morale: forse il problema andrebbe rovesciato. Si dice che il portoghese Otelo de Carvalho, leader della rivoluzione dei garofani, andò da Olof Palme e gli chiese: “Insegnaci a combattere i ricchi”. Palme rispose: “Veramente, noi combattiamo la povertà, non i ricchi”.
(tratto da Repubblica – Affari e Finanza del 7 dicembre 2020)