Avviso dalla pandemia: in tempi rapidi una riforma per ridisegnare il rapporto tra Stato e Regioni
Le vicende attuali che vedono le Regioni in continua contrapposizione con lo Stato, volta a volta rivendicando una orgogliosa autonomia per poi chiedere non solo aiuti ma anche una copertura da parte del potere centrale delle decisioni prese, dimostrano che la politicizzazione del referendum sulla riforma costituzionale di Renzi ha prodotto un curioso effetto collaterale: nessuno osa più affrontare la questione della necessaria messa a punto di questo nostro strampalato federalismo.
Si è molto discusso dei difetti della modifica del titolo V del 2001 che ha molto aumentato le competenze attribuite alle Regioni al momento dell’istituzione nel 1970. E la maggior parte degli osservatori concordava sul fatto che le nuove funzioni erano troppe ma che, soprattutto, non erano chiare. Infatti, lo Stato non aveva fatto, né ha provveduto più tardi, le leggi nazionali quadro che avrebbero dovuto definire e incardinare nell’ordinamento le funzioni residue conservate al livello centrale e aprire lo spazio giuridico per la legislazione regionale sulle diverse materie. Ciò invece era stato fatto per le competenze del 1970, che infatti hanno dato origine a un modesto contenzioso, contrariamente alla più recente riforma, che ha prodotto continui conflitti davanti alla Corte Costituzionale.
Il tentativo di riforma del governo Renzi
Su questo aspetto la responsabilità è dei governi che si sono succeduti che non hanno nei fatti mai dato attuazione al nuovo titolo V, probabilmente perché la portata della riforma era tale che nessuno voleva veramente attuarla. Il tentativo del governo Renzi, di rivedere la portata delle competenze attribuite nel 2001 andava secondo me nel senso che quasi tutti auspicavano ma, forse per una certa approssimazione, sicuramente per ragioni politiche, non è andato in porto, trascinando con sé anche l’altra riforma essenziale per un ordinamento che restava comunque molto più federale che in passato, quella della composizione e delle modalità elettive del Senato. Anche in quel caso l’intento era chiaro, avere una seconda camera con poteri differenziati, che avrebbe creato un luogo dove le rappresentanze delle regioni e degli enti locali avrebbero partecipato alla definizione della legge di bilancio e delle norme che riguardassero le competenze regionali e locali. Che comunque sarebbero state la maggioranza, vista l’importanza e la quantità della materia che restavano alle regioni. Di fatto il Senato veniva soprattutto privato del potere di dare e togliere la fiducia al governo. Mancava però una chiara definizione sulla modalità di elezione del Senato stesso, diretta sul modello svizzero o americano o indiretta, su quello del Bundesrat tedesco.
I “buchi neri” per l’assenza di leggi quadro
La riforma fu bocciata dal referendum e quindi ci troviamo ancora nella stessa rovinosa situazione: una Costituzione che attribuisce allo Stato solo alcune precise funzioni, spesso di puro coordinamento e che lascia al livello regionale tutto ciò che non è specificatamente attribuito al livello centrale. E proprio per non compiere fino in fondo una riforma che pochi condividono, nessuno dei governi successivi ha nemmeno provato a fare le leggi quadro di incardinamento nella legislazione ordinaria delle ormai confermate competenze delle regioni. Così di fatto nessuno ha dato attuazione alla riforma, perché ad esempio per trasferire la maggior parte dell’istruzione alle regioni occorre che una norma definisca termini, modalità e trasferimenti di personale e mezzi, oltre che delle relative risorse finanziarie. Siamo di fronte quindi a una radicale modifica istituzionale, scolpita nella Costituzione da due referendum (il primo confermativo e il secondo che ne ha rifiutato la modifica), ma che nessuno vuole applicare. Così come era d’altronde avvenuto con quella del 1948 che aveva dovuto aspettare più di vent’anni per vedere istituite le regioni dalla legge ordinaria.
La limitata azione statale nella sanità
Le vicende della Covid-19, che vedono continui conflitti fra Stato e Regioni, sono un perfetto esempio del caos istituzionale in cui ci dibattiamo. Per fortuna la sanità è una delle vecchie competenze che dispone di una norma nazionale di organizzazione del sistema sanitario, pur se un po’ vecchia e da rivedere, in particolare sulle modalità di finanziamento, che sono troppo legate a trasferimenti statali e rendono quindi il sistema lento e farraginoso (ricordo che la Costituzione parla di risorse fiscali proprie, salvo naturalmente le compensazioni per le regioni più povere). Tuttavia si è visto in funzione uno dei principi che furono all’origine della regionalizzazione: creare una concorrenza virtuosa fra Regioni e permettere agli elettori di valutare i risultati. E in effetti alcune regioni hanno dimostrato di avere una migliore organizzazione della sanità di altre, mentre si è visto il limite delle continue imposizioni di tagli indifferenziati al personale e ai posti letto. Lo Stato cioè, invece di controllare che i livelli essenziali di assistenza fossero assicurati ovunque e a costi standard e che i previsti fondi da riservare alla prevenzione non finissero nella voragine della spesa per la cura, ha svolto essenzialmente una funzione di controllore dei conti. Su quasi tutto il resto, tuttavia, il caos è molto maggiore, perché le regioni sono andate in ordine sparso, ritagliandosi funzioni parziali e finanziate con fondi occasionali (nazionali o europei) in campi dove in teoria dovrebbero avere la competenza principale. Così su quasi tutti i settori economici le norme e i sussidi si moltiplicano e si sbriciolano in un modo sempre più caotico e i decreti su chi può fare o non fare qualcosa sono spesso del tutto scollegati dalla norma di ristoro del danno. E ciò malgrado la dichiarazione dello stato di emergenza che forse avrebbe però dovuto chiarire meglio quali competenze venivano sospese e come lo Stato si sarebbe fatto carico dei costi di queste decisioni.
La necessità di dialogo tra maggioranza e opposizione
Uno straordinario pasticcio, insomma, che richiederebbe, questo sì, un dialogo fra maggioranza e opposizione per affrontare la questione dell’attuazione di norme chiare che rispettino la Costituzione, ma al tempo stesso tengano conto di quanto la pandemia ha insegnato a tutti gli Stati federali del mondo (e anche all’Unione Europea che purtroppo ancora federale non è): che si ha sempre bisogno dell’aiuto del più grande di noi e che solo l’aiuto e la cooperazione reciproci possono e potranno permetterci di uscire dalla crisi. Ma anche che indispensabile far funzionare bene e con poteri veri e chiari le istituzioni locali per garantire cure e aiuto di qualità ai cittadini. Abbiamo insomma imparato che c’è da fare per tutti e che se ciò avviene in modo ordinato e chiaro ci guadagnano i cittadini. Io sono sempre stata e sarò federalista, perché penso (con Claude Raffestin da cui prendo la definizione) che esista una memoria dei territori, che dobbiamo preservare perché è un patrimonio fondamentale di un Paese. Proprio per questo sono convinta che, in leale collaborazione, le istituzioni dovrebbero mettersi al lavoro per incardinare la Costituzione in leggi quadro chiare, che interpretino il dettato in modo non esasperato, perché anche l’unità del Paese è un valore e una realtà (la pandemia ha dimostrato anche che l’Italia esiste, nella percezione dei suoi cittadini e nel riconoscimento del resto del mondo) e che ci aiutino a diventare un Paese in cui governanti e governati sappiano, nei tempi ordinari e in quelli straordinari, chi deve fare e che cosa nel governo della cosa pubblica e nel sostegno di quella privata.