Prestereste i vostri soldi a un’azienda che ha debiti pari a 1,3 volte il fatturato e chiede nuovi fondi non per investimenti ma per le uscite ordinarie? Se non li prestereste, forse non sareste nemmeno disposti a farvi garanti di quel debito.
Questo richiedente fondi è l’Italia nel pieno dell’emergenza Covid-19. Ecco perché non condivido l’entusiasmo che colgo fra i governanti e i cittadini comuni verso nuove incursioni rischiose nelle praterie del debito pubblico, né la censura verso la ritrosia di tedeschi e olandesi a condividere con noi questa avventura.
Anche se Mario Draghi, con la sua innegabile autorevolezza, ha sostenuto questa strada. L’Italia deve cambiare strategia: non bisogna partire dalla richiesta di debito ma dalla proposta di un piano di interventi. Se questo sarà convincente, il resto verrà. È coerente con il messaggio di Gentiloni di lunedì scorso.
Non ho paura o avversione per il debito in sé, figuriamoci: studio l’intermediazione finanziaria e le banche da più di trent’anni. Ma proprio per questo so che il debito, cioè l’acquisizione di risorse monetarie con l’impegno alla restituzione, non è una cosa buona o cattiva per sua natura.
Il debito è un mezzo, non un fine. Quindi la sua bontà dipende dalla finalità del finanziamento. Quando si va in banca a chiedere un prestito, la prima domanda è: «per cosa le servono questi soldi e come pensa di restituirli?» e la seconda è: «quali garanzie offre?». Emettere titoli di Stato è la stessa cosa, i potenziali investitori si fanno proprio queste domande.
Cosa può dire l’Italia ai suoi potenziali finanziatori? Alla prima domanda oggi possiamo solo rispondere che vogliamo erogare sussidi di cui non conosciamo né l’estensione né la durata: praticamente allargare indefinitamente il reddito di cittadinanza sotto diversa denominazione.
Quanto alla seconda questione dobbiamo rappresentare che già siamo indebitati al 135% del prodotto interno lordo, vale a dire che i nuovi creditori dovranno accodarsi a un monte di impegni pregressi per soddisfare i quali dovremmo lavorare per 15 mesi senza percepire nulla e girare tutto il ricavato ai sottoscrittori dei titoli pubblici.
Se la seconda condizione è un dato di fatto ineliminabile, sulla prima si può e si deve lavorare. Anzi, dobbiamo impegnarci maggiormente proprio perché siamo indeboliti dal fardello di debito accumulato. Dobbiamo cioè chiarire a noi stessi e ai finanziatori e ai potenziali garanti come pensiamo di usare le risorse.
Al momento non ci sono idee diverse da aulici proclami come aiutare le famiglie, sostenere le imprese, non lasciare indietro nessuno. Obiettivi nobili, irrinunciabili, ma che servono a poco nel momento in cui devi convincere qualcuno a sborsare del denaro.
Forse è troppo presto per avere un disegno compiuto, è comprensibile, ma bisogna lavorare in questa direzione. Sbloccare i cantieri? Sospendere le imposte per un certo periodo? Erogare sussidi per importi e tempi definiti? È certo che occorre immettere domanda pubblica per surrogare quella privata che verrà meno, ma facendo spesa corrente o investimenti? E se investiamo, in quali progetti? Con quali tempi? Con quali ritorni attesi?
Formuliamo un progetto che faccia intravvedere anche le vie per il rientro del debito, altrimenti proponiamo un vicolo cieco dentro cui nessuno vorrà avventurarsi con noi. In termini aziendali: dobbiamo formulare un business plan. Se questo sarà credibile, combinando adeguatamente esigenze di assistenza e rilancio dell’economia, né i mercati né l’Europa ci diranno di no.
(tratto da L’Eco di Bergamo del 2 aprile 2020)