La manovra che il governo ha delineato nella NaDef è minuscola. Di conseguenza gli effetti sulla crescita sono modesti e forse trascurabili. Lo stesso governo indica che l’impatto sarà pari al +0,2%, con una crescita 2020 che passa dallo 0,4% tendenziale a un programmatico dello 0,6%. In realtà, la manovra annunciata “appare” di circa 30 miliardi di euro. Di questi però, 23 miliardi servono per evitare l’aumento dell’IVA. Ma se l’IVA non aumenta significa che nel 2020 avremo la stessa Iva del 2019 e quindi non c’è alcuno “impulso” all’economia. Certo, se l’IVA fosse aumentata avremmo subìto un forte freno che avrebbe portato la crescita allo zero come quest’anno. Il non aumento dell’IVA “evita” quindi questo effetto freno sulla crescita, ma non determina nessun ulteriore sostegno alla ripresa.
Dei restanti 7 miliardi, circa 4,5 sono dovuti a spese “obbligatorie” e 2,5 miliardi (lo 0,12% del PIL) sono destinati a ridurre il cuneo fiscale a partire dal luglio 2020. Al di là delle valutazioni di merito, “questo” taglio del cuneo rappresenta circa un quarto del valore conseguito dai lavoratori con gli 80 euro di Renzi e circa la metà del Reddito di cittadinanza o di Quota 100. Sul fronte delle coperture, i 30 miliardi della manovra sono fatti per circa la metà con aumento del deficit di 0,8%, che passa da un tendenziale dell’1,4% al 2,2 per cento.
Poi ci sono 6 miliardi di minori interessi sul debito pubblico. Qui va precisato che queste minori spese fanno già parte del “tendenziale” e non rappresentano una manovra. Derivano dagli effetti della politica monetaria di Mario Draghi e dal fatto che i mercati finanziari hanno, almeno per ora, preso atto che l’Italia, dopo aver evitato una maggioranza di governo nazional-sovranista, non sembra più correre il rischio di uscire dall’euro. Ecco perché lo spread dai circa 300 punti si è dimezzato a sotto i 150 punti base. Poiché l’anno prossimo andranno a scadenza circa 400 miliardi di titoli di stato, su questi si risparmierà circa l’1,5%, cioè più o meno 6 miliardi di euro. Sta di fatto però che il nostro spread è tuttora il doppio di quello di Spagna e Portogallo e circa cinque volte più alto di quello della Francia che sta a 30 punti base. Una manovra coraggiosa e forte dovrebbe porsi l’obiettivo di riportare lo spread italiano vicino a quello francese. Questo ulteriore risparmio di interessi sarebbe effetto della manovra stessa e non la conseguenza “esterna” della politica monetaria della BCE.
Poi ci sono 7 miliardi di maggiori entrate dovute… alla lotta all’evasione. Qui va ribadito che le entrate da lotta all’evasione si mettono a bilancio solo quando sono effettivamente realizzate e non quando si spera che si realizzino. I restanti 2-3 miliardi vengono trovati in tagliuzzamenti di spese ministeriali e di tax expenditure su settori che producono danni ambientali.
Come si vede dai numeri, la manovra è in sostanza pari a 7 miliardi di euro, cioè lo 0,4% del PIL. È coerente quindi indicare che, con una manovra da 0,4% di Pil, la crescita aumenta dello 0,2%. Un’ulteriore nota va dedicata all’effetto del deficit pubblico sulla crescita e quindi al fatto, sbandierato da tempo e da più parti, che sarebbero i vincoli “europei” a impedire all’Italia di crescere di più. Nella NaDef si assegna alla flessibilità europea la possibilità di aumentare il nostro deficit dello 0,8%. Ebbene, con uno 0,8% di deficit in più si ha uno 0,2% di crescita in più. Per paradosso si potrebbe allora dire che, per avere un effetto minimamente rilevabile sulla crescita, magari pari al +1%, basterebbe aumentare il deficit di un +4%, portandolo al 6,2%!
Il vero problema è che questa manovra è minuscola perché lascia intonsi i livelli e la composizione della spesa pubblica (900 miliardi) e delle entrate (855 miliardi), continuando a mettere a bilancio anche per i prossimi anni i 50 miliardi di spesa sprecati e malversati e i 100 miliardi di evasione mancanti tra le entrate. Tutti coloro che negli ultimi venti anni hanno “sguazzato” dentro queste cifre potranno continuare a farlo visto che quei numeri sono stati scritti da qui fino al 2022!
Infine, il debito pubblico. Nel 2019 è pari a 2.420 miliardi di euro, il 135,7% del PIL, un punto in più rispetto al 2018. Da qui al 2022 è destinato ad aumentare di altri 100 miliardi arrivando a 2.520 miliardi. Solo con una sovrastima della crescita reale e dell’inflazione, si fa sì che il PIL nominale aumenti ben al di là di ragionevoli previsioni e con questo si fa vedere che il rapporto debito/Pil scende lievemente.
Ma questo è quello che è sempre stato fatto anche dai governi precedenti. Nella sua NaDef del settembre 2016, il governo Renzi-Padoan aveva indicato un rapporto debito/PIL in riduzione e per il 2019 pari al 126,6%. Nel suo DEF di aprile 2018, il governo Gentiloni-Padoan, aveva indicato sempre un profilo in riduzione e per il 2019 al 128% del PIL. Ad aprile di quest’anno nel suo DEF il governo Conte-Tria ha indicato il 130%. Oggi sappiamo che siamo al 136 per cento.
Per finire, questa modestia e fragilità dei numeri ha forse indotto il governo ad annunciare un provvedimento “collegato” che rivaluterà le rendite catastali, profilando quindi un aumento di fatto dell’Imu. Ma questo non sta nei numeri della NaDef.
Mario Baldassarri, presidente del centro studi Economia reale
(tratto da Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2019)