Il Dono e il Debito

La reciprocità del dono

La pratica del dono nelle culture antiche è un comportamento improntato alla reciprocità. Non è una liberalità svincolata da ogni obbligo e legame. Al contrario, il dono è uno strumento con cui si creano i vincoli parentali, amicali e ospitali.
Questa pratica nell’antica Grecia veniva definita “xenia”, appunto ospitalità. L’attuazione della “xenia” veniva tutelata da Zeus “xenios” (protettore degli ospiti), il quale si fa anche garante della reciprocità, ovvero che l’ospitante possa in futuro ricevere una eguale forma di assistenza. Per questa ragione era un dovere per i Greci ospitare coloro che chiedevano ospitalità.
La strutturazione della “xenia” creava un vincolo indissolubile tra ospitante e ospitato, tant’è che nell’Iliade, Glauco e Diomede, due guerrieri che militano su fronti opposti, sul campo di battaglia scoprono di essere legati dal vincolo dell’ospitalità. A quel punto cessano le ostilità e si scambiano le armi.
Il dono è centrale anche nella Bibbia: si realizza in una reciproca ospitalità tra chi lo fa e chi lo riceve, ed è autentico nella misura in cui l’accoglienza è aperta, disposta a includere altri in questa dinamica. L’accoglienza è ciò che rende umano il nostro esistere nel mondo. Tutti viviamo grazie al fatto di essere stati accolti e chiamati ad accogliere; siamo ospitati prima, per poter poi diventare ospitanti e ospitali. Si può dire che l’accoglienza è la forma originaria dell’humanum, più che un contenuto fra gli altri, e sulla capacità di accoglienza si gioca la nostra condizione di esseri umani.
Come ha scritto Francesco Pallante, “significativamente, la stessa possibile etimologia della parola comunità (dal latino cum munus = con dono) mette in luce il legame esistente tra dono (e quindi persona) e comunità”.

La reciprocità nella Costituzione

Anche la Costituzione della Repubblica italiana – a ben vedere – è costruita sulla pratica del dono, inteso come reciprocità e ospitalità, relazioni e obbligazioni, diritti e doveri. Le tracce della “xenia” emergono continuamente dalle parole scritte sulla Carta.
Il 9 settembre 1946, Giuseppe Dossetti presentò in Assemblea Costituente un ordine del giorno, nel quale si affermava: «Il nuovo statuto dell’Italia riconosca la precedenza sostanziale della persona umana rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; affermi sia l’esistenza dei diritti fondamentali delle persone sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato».
Le parole di Dossetti risuoneranno nel testo della Costituzione. In particolare, nell’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Nell’articolo 3, si spiega come la solidarietà sia la pratica del dono nella società contemporanea: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
La “xenia” emerge con forza anche in altri articoli relativi ai principi fondamentali della Costituzione: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» (art. 10). «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11).
Nella Costituzione i diritti e i doveri si intrecciano in modo indissolubile. La prima parte della Costituzione è divisa in quattro capitoli. Sono tutti definiti “rapporti”: civili, etico-sociali, economici, politici. La reciprocità è alla base delle relazioni tra i cittadini e le cittadine.

Il fisco come norma della reciprocità

«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53). Tra due persone non c’è bisogno di normare la reciprocità: il dono è la via maestra.
In una società complessa invece è necessario il “fiscus”, un cesto dove finiscono le risorse versate come dovere e dal quale attingere per garantire i diritti. Soltanto così si possono comprendere affermazioni come questa; «Mi piace pagare le imposte: così facendo compro civiltà» (Oliver Wendell Holmes jr., giurista americano). E anche: «Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute» (Tommaso Padoa Schioppa, ministro dell’Economia).
I membri dell’Assemblea costituente, nel formulare l’art. 53, avevano obiettivi molto chiari e precisi: «L’attuale sistema tributario è regolato dall’art. 30 dello Statuto Albertino e basato sul criterio di proporzionalità. Se poi consideriamo che le maggiori entrate provengono dalle tasse su beni e consumi, provocando una progressività a rovescio, si vede come in realtà il carico fiscale avvenga non in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo, il che costituisce una grave ingiustizia che danneggia le classi sociali meno abbienti e da correggere in sede di calcolo del reddito complessivo, netto, da quelle spese che provvedono alle loro necessità personali e a quelle dei suoi famigliari, essendo queste, spese che concorrono a formare la loro capacità contributiva, così da colpire il reddito nella sua reale misura, applicando una progressività tale che diventi la spina dorsale del nostro sistema tributario» (Salvatore Scoca, relatore per l’art. 53 all’Assemblea Costituente).
In altre parole, secondo i Costituenti, le imposte non vanno calcolate in proporzione al reddito (per esempio, far pagare a tutti il 30%), perché – come hanno scritto gli studenti di Barbiana nella “Lettera a una professoressa” ‒ «non c’è nulla di più ingiusto che far parti eguali tra diseguali».
Se il fisco è la versione istituzionale del dono, l’evasione fiscale è una dissociazione dalla reciprocità, una schizofrenia sociale, uno sfregio alla civiltà. «Le leggi consentono di mantenere un principio di equità laddove la logica degli interessi genera disuguaglianze. La legalità in campo fiscale è un modo per equilibrare i rapporti sociali, sottraendo forze alla corruzione, alle ingiustizie e alle sperequazioni. (…) La tassazione è segno di legalità e di giustizia. Deve favorire la redistribuzione delle ricchezze, tutelando la dignità dei poveri e degli ultimi che rischiano sempre di finire schiacciati dai potenti» (Papa Francesco – Udienza di una delegazione dell’Agenzia delle Entrate – 2022).

Il debito come negazione della reciprocità

Se il dono fosse considerato lo strumento della reciprocità, potremmo dire che il debito si fonda su un rapporto univoco, unidirezionale, non reciproco. Non c’è reciprocità tra creditore e debitore. Non c’è libertà ma dipendenza. Il debito può diventare un peso enorme che grava sulla vita delle persone o che minaccia la sopravvivenza di interi popoli. John Adams, il secondo Presidente degli Stati Uniti d’America, aveva colto la gravità del problema oltre due secoli fa: «ci sono due modi per rendere schiavo un popolo: uno è la spada, l’altro sono i debiti».
L’art. 97 della nostra Costituzione inizia così: «Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico». L’attuale ammontare del debito pubblico deve preoccupare seriamente. Nel Documento di Economia e Finanza (DEF) recentemente varato dal Governo italiano l’indebitamento netto nel 2023 delle amministrazioni pubbliche è stato di 150 miliardi di euro. La cifra deriva dalla somma del disavanzo primario (71 miliardi) con gli interessi sul debito (79 miliardi). Detto in un altro modo, è la differenza tra il totale delle spese (1.146 miliardi) e il totale delle entrate (996 miliardi).
Si tratta di una cifra enorme, che rappresenta oltre il quintuplo dell’ultima manovra finanziaria (circa 28 miliardi di euro) e il 7,2% del Prodotto Interno Lordo (PIL). La spesa per interessi è il 3,8% del PIL e questa percentuale è prevista in aumento nei prossimi quattro anni, fino a raggiungere il 4,4% nel 2027. Di fatto a causare l’aumento del debito è il debito stesso, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Una classe politica responsabile dovrebbe porsi il problema di come uscire da questa spirale che comporta un enorme spreco di risorse
Anche il rapporto tra debito e PIL è previsto in aumento: dal 137,3% del 2023 al 139,6% del 2027. Non solo: il 139,6% è considerato il dato minimo. A causa del rischio sui tassi di cambio si potrebbe arrivare nel 2027 al 143% e, considerando i rischi finanziari, al 145,1%.
Dato che il 2027 segna il limite “normale” dell’attuale legislatura, chi allora verrà scelto per governare il Paese troverà una situazione finanziaria peggiore. Alla faccia di chi sostiene che bisognerebbe lasciare ai posteri una situazione migliore di quella che si è trovata.
Nella seduta del 24 ottobre 1946 della seconda sottocommissione dell’Assemblea costituente, Ezio Vanoni – si legge nel verbale della seduta – «per quanto riguarda l’esigenza che ogni richiesta di nuova spesa comporti l’obbligo di proporre anche i mezzi per fronteggiarla (…) ha sottolineato l’opportunità che nella Costituzione si sancisca l’obbligo in parola, sia per il Governo che per il Parlamento, come garanzia della tendenza al pareggio del bilancio. Esprime l’avviso che non sussista difficoltà per la pratica attuazione del principio che non si debbano fare spese che per il momento la finanza nazionale non può sopportare. Ed è bene che, anche dal punto di vista giuridico, il principio sia presente sempre alla mente di coloro che propongono delle spese nuove: il Governo deve avere la preoccupazione che il bilancio sia in pareggio e la stessa esigenza non può essere trascurata da una qualsiasi forza che si agita nel Paese e che avanza proposte che comportino maggiori oneri finanziari».
È il caso di far presente che il deficit di bilancio e il debito pubblico sono meccanismi che di fatto operano una redistribuzione al contrario, cioè tolgono ai poveri per dare ai ricchi. Ai ricchi e ai potenti conviene che lo Stato italiano e i cittadini italiani siano indebitati. Ai poveri converrebbe invece che le casse del fisco fossero piene, perché quelle risorse potrebbero essere usate per alleviare i debiti dei cittadini più in difficoltà e per dare la possibilità di una vita dignitosa ai meno abbienti.
Il dovere inderogabile di solidarietà (verso i più poveri e nei confronti delle prossime generazioni) dovrebbe spingerci a far pagare il debito a evasori/corrotti/mafiosi, recuperando anche il patrimonio illegittimamente accantonato. Per questo bisognerebbe introdurre un’imposta patrimoniale tanto più elevata quanto meno si riesca a giustificare il patrimonio posseduto con il reddito dichiarato.
Il criterio della progressività fiscale e l’utilizzo della capacità contributiva come base imponibile (previsti dall’art. 53 della Costituzione) negli ultimi decenni sono stati fortemente elusi (in particolare con tassazioni forfetarie e separate) e compressi (l’aliquota più alta è scesa dal 72% al 43%). I dati mostrano come i più ricchi abbiano pagato sempre meno tasse: di questo dovrebbe preoccuparsi chi ha a cuore l’equità fiscale.
L’aumento del debito pubblico non è un destino ineluttabile. La Svezia, per esempio, nell’arco di 3 decenni è riuscita a dimezzare il proprio debito in relazione al PIL: dal 70% al 35% attuale. L’Italia ha attualmente un rapporto debito/PIL vicino al 140%, cioè il quadruplo degli svedesi. Viene da pensare che in Svezia il debito “buono” sia quello che scende e che tutti i governi siano andati nella stessa direzione nell’interesse del Paese. In Italia, nonostante abbiamo il debito pubblico più alto d’Europa, si prosegue invece sulla via dell’aumento, in modo assai poco responsabile.
Per evitare di far pagare la riduzione del debito pubblico ai meno abbienti è necessaria una radicale riforma fiscale con l’obiettivo di:
1) inserire tutti i redditi percepiti – a prescindere dalla loro provenienza – nella base imponibile da tassare (eliminazione della cedolare secca su affitti, della tassazione separata dei risparmi e delle attività finanziarie, fatta eccezione per i titoli di Stato; sostituzione di tutte le attuali forme di tassazione forfettaria attraverso il nuovo sistema); aumentare la deducibilità dalla base imponibile delle spese, soprattutto quelle considerate essenziali e necessarie, ai fini di una corretta determinazione della reale capacità contributiva di ciascuno (art. 53 Cost.);
2) garantire l’equità fiscale aumentando la progressività (art. 53 Cost.) del prelievo tributario (anche attraverso l’aumento del numero delle aliquote e delle relative fasce di reddito imponibile) e diminuendo le aliquote IVA per i beni e i servizi essenziali;
3) combattere l’evasione fiscale anche attraverso l’attivazione di un contrasto di interessi tra consumatore/fruitore e venditore/erogatore, e l’introduzione di una fiscal–card, per disincentivare l’utilizzo dei contanti;
4) contrastare il fenomeno della cosiddetta esterovestizione (fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società) anche mediante l’utilizzo delle intercettazioni come strumento di indagine.
Inoltre, per ragioni di equità, bisogna istituire un’imposta patrimoniale straordinaria sui grandi patrimoni (mobili e immobili), con aliquota personale congrua. Si tratta di stabilire per ciascun titolare del patrimonio un’apposita aliquota, mettendo a confronto il patrimonio detenuto con la documentazione storica dei redditi dichiarati al fisco nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria; occorre anche prevedere un criterio di calcolo dell’imposta di successione e donazione basato sullo stesso principio.

La necessità di una politica responsabile

Purtroppo, oggi manca una classe politica in grado di raccogliere la sfida, cioè parlamentari e ministri responsabili che abbiano come orizzonte il benessere della comunità e non le prossime elezioni. Manca anche un popolo consapevole, che sappia eleggere come propri rappresentanti coloro che hanno davvero a cuore la giustizia sociale e il futuro del Paese e che tengano in considerazione i diritti delle prossime generazioni, alle quali abbiamo il dovere di non lasciare in eredità il fardello del debito pubblico.
Di fronte a questa situazione ci si aspetterebbe un soprassalto di attenzione, una ripresa della consapevolezza che non è sensato continuare su questa falsariga. Tanto più che nei documenti di previsione dei prossimi anni è già indicato un ulteriore aumento del debito sia in termini assoluti sia in relazione alla ricchezza prodotta (rapporto debito/PIL). Dovrebbe scattare un allarme politico, perché chi è molto indebitato (e l’Italia ha il più grande debito in Europa) non dispone delle risorse necessarie per dare risposte concrete ai bisogni sociali e per garantire i diritti riconosciuti dalla Costituzione.
Periodicamente viene pubblicato il dato del nuovo record del debito pubblico, ma questa informazione -fondamentale per le sorti del Paese – viene appresa come l’arrivo di una nuova perturbazione metereologica, che prima o poi passerà. Ma il debito resta con tutte le conseguenze negative. Eppure, la notizia scivola via nell’indifferenza generale, come se non ci riguardasse. Chissà per quale ragione di fronte al problema del debito pubblico, il patriottismo – spesso esibito con orgoglio – scompare.
Viene in mente la storiella raccontata da Piero Calamandrei agli studenti milanesi nel 1955 in un discorso sulla Costituzione: “Due emigranti, due contadini traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dorme nella stiva e l’altro sta sul ponte e si accorge che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscilla. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?». E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Non è mica mio».
Il debito pubblico sta creando grosse falle nella barca Italia e rischia di farla affondare. Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, ha recentemente dichiarato: “Se considerassimo questo debito come un debito personale, sarebbe un livello di indebitamento da infarto, pari a 48.524 euro. Anche in questo caso, si tratta del dato peggiore mai registrato. Se fosse un debito familiare, in media ammonterebbe a 108.438 euro”.
Forse è necessario far scattare questo “se” per passare dall’indifferenza alla responsabilità. Ogni genitore personalmente cerca di non lasciare debiti ai figli. Collettivamente invece stiamo lasciando un carico pesante alle generazioni future. Stiamo lasciando il debito come dono ai posteri. Un dono avvelenato, ingiusto e immorale. Ne siamo consapevoli?