Indebitarsi costa all’Italia 170 punti in più della Germania e 50 punti in più della Grecia. Il tasso per i titoli pubblici decennali è il più alto d’Europa. Nella percezione internazionale l’Italia è meno sicura della Grecia.
Un peso che si misura nell’affanno del governo nel perseguire l’obiettivo del deficit fissato per il 2023 al 4,5%. Il fabbisogno del bilancio statale nei primi sei mesi è 96 miliardi, il doppio rispetto allo scorso anno.
Ma soprattutto ciò che incide è il basso livello delle entrate, circa 20 miliardi in meno. Compensare l’aumento delle spese diventa quindi un problema. Non c’è governo italiano che non registri difficoltà finanziarie. La sostenibilità del debito è un dato di fatto macroeconomico che rende il Paese vulnerabile. Il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) finanziato dall’Unione Europea è il salvagente cui aggrapparsi per cercare di approdare alle rive sicure della stabilità finanziaria. Ma la terza rata di 19 miliardi (decurtata di 519 milioni da recuperare nella quarta rata) si è sbloccata soltanto ieri. I ritardi del governo succeduto a Draghi nel riformulare il piano e metterlo in attuazione si fanno sentire. Ci sono problemi seri nella capacità di spesa del sistema Italia. Un esempio i 2’586 progetti per la costruzione di asili nido sono al 30 giugno 2023 ancora fermi. Vi sono state obiezioni di Bruxelles relative alla proposta italiana di estenderli a strutture polivalenti o polifunzionali ma è anche vero che molti temono l’incapacità delle singole unità territoriali di portare a compimento la spesa entro il 2025.
Il rialzo dei tassi della Banca Centrale Europea segna dunque un punto di svolta. Costringe ad abbandonare le illusioni. La possibilità di un illimitato ricorso al debito pubblico svanisce tra i costi crescenti del servizio del debito. È scritto nel Documento di economia e finanza (DEF) approvato dal Consiglio dei Ministri: al 2026 gli interessi da pagare sono 100 miliardi. Nel 2022 erano 84 miliardi. Ridurre il debito non è più un’opzione, è un obbligo. In questi anni si è riusciti a passare dal 155 % al 140% ma l’inflazione è stata la grande alleata. Adesso che l’indice è in discesa finisce anche questo aiuto surrettizio. Questo non vuol dire che il governo non abbia spazio di manovra. Può scegliere cosa fare ma deve farlo non a debito. Vuol dire che se si pensa ad aumentare la spesa occorre anche sapere dove si va a tagliare. Spazi di allargamento non esistono più.
La delega fiscale si muove verso una ristrutturazione del carico fiscale e quindi una redistribuzione. E gli sforzi del ministro Giorgetti e del viceministro Leo sono per un fisco sostenibile. Sia per il contribuente che per le casse dello Stato. Ma va detto che ipotesi quali la flat tax , la tassa piatta che prevede aliquote uguali per tutti, produce nell’immediato meno entrate. Si spera in una maggiore fedeltà fiscale del contribuente nel medio termine e quindi un compenso contabile. Ma sono ipotesi, speranze.
Resta il fatto che l’Italia è un Paese dove solo il lavoro autonomo fa registrare 68,3 su 100 Euro di evasione. Per l’esattezza 32 miliardi. La tassa piatta è nell’Est europeo dove la spesa sociale è tra il 10 e il 20% del PIL. In Italia le pensioni, la sanità, l’educazione, l’assistenza sociale, le infrastrutture, la sicurezza ecc. costano circa il 50% del bilancio. La Grecia ha visto dimezzare le pensioni a seguito della grande crisi finanziaria del 2009 e 2010. Adesso da allievo somaro Atene è diventato scolaro modello, come titola il telegiornale tedesco ARD. All’Italia grazie a Draghi del «whatever it takes» è stata risparmiata la gogna finanziaria. La stabilità economica è un valore che va oltre le appartenenze politiche. Al governo Meloni spetta di dire la verità al Paese. Siamo al punto di svolta, occorrono meno polemiche e più fatti.