Introduzione
Condivido la riflessione di Luciano Corradini che ha definito l’Italia un paese distorto e penso che anche la situazione economica italiana debba essere esaminata con sincerità e franchezza perché, nelle analisi correnti, vedo tanta confusione, che scambia le variabili dipendenti con quelle dipendenti nelle correlazioni e, di conseguenza la dinamica e la lettura degli avvenimenti. Inoltre, questa distorsione può diventare funzionale alla difesa di ciò che Keynes chiamava gli “interessi costituiti” e suggerire indicazioni inefficaci per la soluzione dei problemi economici e sociali del Paese.
Le questioni interrelate, che qui affronto brevemente, sono due: la politica della crescita, misurata dalla dinamica del PIL, e quella del debito pubblico, finalizzata al controllo del suo rapporto con il PIL, da cui dipende la stabilità finanziaria del Paese. I traguardi immediati da perseguire sono due:
- tornare alla crescita (unico modo per creare reddito ed occupazione);
- risolvere nel medio e lungo periodo il problema dei debiti delle pubbliche amministrazioni.
La mancata crescita economica in Italia
Secondo le previsioni, per quanto riguarda il 2020 che si sta chiudendo, il Paese perderà il 9 per cento del PIL e, per capire l’importanza di questa recessione, ricordo che nel quinquennio 2008 – 2013, in piena crisi economica e finanziaria internazionale, l’Italia perdette il 9 per cento del PIL. Ma questa perdita di reddito, seppure imponente, non è il problema più grave di questo Paese, che vede una stagnazione della sua produttività da trent’anni; dalla firma del trattato di Maastricht, nel 1992, il valore di questa variabile, che prevale in quest’ultimo trentennio, è lo zero.
Per tornare alla crescita, da quarant’anni la comunità internazionale si è dotata di uno strumento, utilizzato per decenni nei Paesi in via di sviluppo (PVS) e in quelli emergenti, più recentemente anche dalla Banca centrale europea (BCE) ed ora anche dalla Commissione europea (CE): il finanziamento dello “sviluppo strutturale”, ossia di riforme ed investimenti per innescare un “circuito virtuoso” di crescita. Tali sono i vari Piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR). Con l’avvio del periodo di programmazione 2021-2027 e il potenziamento mirato dell’Unione europea (UE), decisi lo scorso luglio, l’attenzione viene posta sulla nuova politica di coesione e sullo strumento finanziario temporaneo da 750 miliardi di euro, denominato NextGenerationEU. Esso è stato pensato per stimolare una “ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa”, volta a garantire la possibilità di fare fronte a esigenze impreviste. Si tratta del più grande pacchetto per stimolare l’economia mai finanziato dall’UE.
In questo contesto si inserisce il PNRR italiano, lo strumento che traccia gli obiettivi, le riforme e gli investimenti che l’Italia intende realizzare grazie all’utilizzo dei fondi europei, per attenuare l’impatto economico e sociale della pandemia e rendere l’Italia un Paese più equo, verde e inclusivo, con un’economia più competitiva, dinamica e innovativa.
A questa considerazione si aggiunge la novità importante della sospensione del Patto di stabilità e crescita (PSC) e, di conseguenza, la questione della sostenibilità del nostro debito pubblico attraverso la repressione finanziaria1); ma tale problema si ripresenterà, con i rischi di sofferenza sociale che abbiamo visto imposti dalla Troika alla Grecia, una volta che saremo fuori dall’emergenza condivisa della crisi pandemica, se la nostra politica economica e la nostra struttura produttiva non cambieranno. Fare conto sull’approdo a un’unione fiscale europea è una fuga dalla realtà, quanto quella di pensare a un’unione politica vicina nel tempo; questa illusione ingenua, o colpevole, trascura l’assenza storicamente determinata delle condizioni necessarie per realizzare l’utopia di Altiero Spinelli e che sono declinate rispetto alla cultura, alla religione, alla lingua e soprattutto alla mentalità.
Il Meccanismo europeo di stabilità (MES)2) riformato avrà esiti di eterodirezione politica ben più cogenti delle regole formali poco efficaci (PSC sospeso e Fiscal Compact, finora rinviato), una volta che il nostro sistema bancario indebolito dai Non Performing Loans precedenti e posteriori a questa crisi dovesse imporre il Private Sector Involvement già codificato3).
Da diversi decenni, ormai, si sente parlare pubblicamente di riforme strutturali per favorire la crescita economica italiana4), ma quelle realizzate si sono rivelate insufficienti, soprattutto quelle per la lotta all’evasione fiscale e all’economia sommersa. Negli anni trascorsi, altre riforme sono state fatte ma poche sono state utili e positive, mentre molte inutili o peggiorative. Se si guarda al mondo dell’istruzione, ne è un esempio negativo il decennio compulsivo delle riforme dell’Università, che ha visto una riforma comunque necessaria inverarsi in una serie di provvedimenti che hanno peggiorato, piuttosto che migliorato, la preparazione dei nostri studenti5). Se si guarda alla scuola secondaria, si constata che il disconoscimento del merito è rimasto uno dei grandi handicap del Paese. Ma i problemi non riguardano solo la scuola e l’Università, ma anche la pubblica amministrazione. Anche qui, la produttività degli addetti viene meno e la speranza di un futuro migliore si spegne, se manca un’adeguata valutazione del merito. In questo senso, la nostra generazione ha disperso, in molti casi, un’eredità che avrebbe meritato un maggiore rispetto.
Se non si fa chiarezza su queste cose continueremo a vedere contraddizioni gravi nella lettura della situazione economica e sociale e, di conseguenza, sulle azioni di politica economica necessarie per migliorarla. Molti intellettuali ed esperti continuano a lamentare che l’Italia abbia troppi pochi laureati e a fare paragoni con Francia, Germania e Regno Unito a questo riguardo. Ma come si conciliano queste affermazioni con il fatto che molti dei migliori laureati italiani devono andare a cercare opportunità di lavoro all’estero, perché le imprese italiane non gliele offrono? Allora, sono pochi o sono troppi?
Negli ultimi decenni, la difesa degli interessi costituiti ha ostacolato le riforme strutturali necessarie. In assenza di queste, una parte consistente delle nostre imprese rischia molto insieme alle relative conseguenze occupazionali. Se questi problemi non vengono risolti, il declino del Paese non si arresterà6). Con le riforme inutili e peggiorative si è dato seguito a quanto Tomasi di Lampedusa narrava, oltre sessanta anni fa, sui cambiamenti avvenuti in Sicilia dopo la spedizione dei Mille. Tutto ciò ha contribuito, in modo gattopardesco, a un inquietante mascheramento delle responsabilità politiche interne negli ultimi decenni. A ciò si deve anche la scarsa consistenza degli investimenti diretti stranieri in un Paese gravato dai malfunzionamenti nei servizi essenziali, come la giustizia civile o l’universalità delle prestazioni spiegata dal Paradosso di Buchanan7), o l’ingente cuneo fiscale. Sappiamo inoltre, e da molti anni, che la competitività della nostra produzione non riguarda solo le imprese ma l’intero sistema paese. Ciò premesso, la stagnazione della produttività e quella, conseguente, della dinamica salariale hanno fatto sì che, negli ultimi venti anni i costi unitari del lavoro in Italia siano aumentati, invece che diminuiti, rispetto a quelli dei nostri partner comunitari.
Può essere una semplificazione, ma con la fine degli anni `60 finisce un periodo e ne inizia un altro, in cui anche la forbice tra i redditi del Mezzogiorno e quelli del Centro-Nord, che si era ridotta nel ventennio precedente, si è riaperta progressivamente8). Da allora sono passati cinquant’anni e si deve sperare che la pandemia, con la sua gravità, possa fare da levatrice ad un mutamento antropologico, a partire dai comportamenti politici, che restituisca fiducia alla popolazione e agli operatori perché è di questo che il Paese ha bisogno.
Certamente, in questo mezzo secolo, l’Italia ha visto lunghi periodi di scioperi dei lavoratori ma anche periodi, ancora più lunghi, di “scioperi” degli investimenti. È noto a tutti che, nel nostro Paese, a crescere in modo continuo, è il flusso di risparmio, ma aumentano i depositi bancari, risorse che, se ci fosse fiducia, potrebbero essere spese in investimenti e consumi. Bisogna indurre coloro che hanno risorse a togliere i soldi dalle banche per portarli nell’economia reale, abbandonando il comodo, anche se rischioso, ricorso all’economia finanziaria per trovare rendimenti. Federico Caffe era contrario alla liberalizzazione dei capitali. Temeva ciò che poteva accadere a chi si sarebbe avvicinato ai mercati finanziari pur essendo ignaro dei rischi nascosti. Di fatto, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, diverse generazioni di risparmiatori sono state esposte a perdite consistenti, anche se a questi rischi non si sono sottratte nemmeno alcune istituzioni dedicate. Fare investimenti, dare occupazione, portare digitalizzazione e green economy, è questo lo “sciopero” che la politica deve interrompere. Anche il sindacato deve resistere, insieme al Governo, alla fuga dall’Italia della grande impresa di cui, dopo l’ultimo mezzo secolo, è rimasto solo qualche brandello.
La politica del debito pubblico
Per la crisi da debito pubblico la strada maestra è l’allungamento delle scadenze dei titoli, in modo che esso venga smaltito man mano che si consolida il processo di crescita. Ha senso, a questo punto, pensare ad un consolidamento o alla cancellazione del debito pubblico? oppure ricorrere ad un’imposta patrimoniale?
Sulla proposta recente di cancellazione del debito pubblico europeo, contratto per rispondere all’emergenza Covid-19, David Sassoli è restato solo ma ha tenuto il punto. Dopo il no della BCE, anche quelli di Gentiloni e Gualtieri: “Il debito si riduce con la crescita”. Ma lui ha insistito: “È il momento del coraggio”. L’entusiasmo è durato soltanto tre giorni: la sua proposta, lanciata domenica 14 novembre, ha avuto il merito di alimentare un vivace dibattito tra gli economisti, ma sul fronte politico si è già scontrata contro un muro perché non ci sono le basi giuridiche per una cancellazione del debito da parte della BCE9). Con questa ragione formale, la BCE e la CE hanno fermato sul nascere ogni ipotesi di eliminare parte dei debiti degli Stati membri e il governo italiano, che avrebbe potuto – teoricamente – trarre qualche vantaggio da tale dibattito visto il suo ammontare di debito pubblico, ha fatto capire che non intendeva assecondarlo. Il presidente del Parlamento Europeo è rimasto così isolato nelle istituzioni comunitarie.
Ora, con la pandemia, le condizioni di povertà si stanno ampliando nonostante il rapporto Debito pubblico/PIL dell’Italia sia vicino al 160%. Perciò il problema del debito pubblico italiano resta sul tavolo, anche se accantonato in questa fase di emergenza.
Chi, tra economisti e politici, sostiene che il debito pubblico italiano non sarà mai pagato senza conseguenze, compie una sorta di rimozione, a una fuga dalla realtà10). Dimentica la drammatica esperienza, ancora abbastanza recente, della Grecia, iniziata nel 2009 e conclusasi formalmente nel 2018. Il governo greco fece l’amaro esperimento di dichiarare lo stato di insolvenza sul debito pubblico, che fu tagliato drasticamente del 70% nel 2012. In seguito a questo default, il Paese subì una recessione pesantissima, lunga quasi sette anni con una perdita di PIL del 25% e una disoccupazione salita oltre il 40%. I greci furono costretti a prendere i soldi dalla Cina, in cambio di alcune infrastrutture importanti, perché l’Europa non voleva darne altri, e Germania, Francia e Svizzera cercavano di recuperare quelli già dati. Lo scenario di lasciare l’Eurozona, reintrodurre la dracma e svalutarla per beneficiare di un vantaggio competitivo (per sua stessa natura transitorio) sarebbe stato molto più costoso. Il costo del debito denominato in euro sarebbe stato più alto e il Paese avrebbe perso l’accesso al sostegno del FMI e delle istituzioni europee. Inoltre, adottando misure protezionistiche e attuando politiche di repressione finanziaria (controlli sui capitali, gestione dei tassi di interesse, introduzione di obblighi di acquisti di titoli di Stato per banche e compagnie assicurative), avrebbe costretto la Grecia a uscire dall’UEM. L’esito del referendum del 2015 riflesse queste preoccupazioni.
Questa è la situazione che anche l’Italia potrebbe avere davanti alla fine della pausa di cui si sta godendo la serenità, ma è una pausa che deve servire per cambiare politica economica, struttura produttiva e comportamenti degli operatori economici, se si vuole allontanare questi rischi. Infatti il problema si ripresenterà, con la non remota possibilità che si verifichi di nuovo, questa volta nel nostro Paese, quella sofferenza sociale che abbiamo visto al di là della sponda del Mediterraneo. Le posizioni ottimistiche, ma illusorie, cui si è fatto riferimento, non tengono conto del fatto che il debito pubblico eccessivo è la zavorra della politica economica che rende difficili gli interventi anti crisi.
Altrettanto si può dire per la proposta di alcuni anni fa, da parte di economisti italiani neomarxisti e sraffiani, di non perseguire il rientro del debito, bensì di stabilizzare il rapporto Debito/PIL e destinare al sostegno degli investimenti e del welfare le risorse da impegnare per il rimborso del debito, di trasformare, in altre parole, il debito pubblico italiano in debito “irredimibile”. Ma, a differenza di un passato in cui tutti gli strumenti di politica economica nazionale (sovranità monetaria, fiscale e valutaria) erano disponibili, da anni questi non lo sono più e i tassi di rendimento determinati dai mercati finanziari internazionali riflettono, con gli spread sui rendimenti dei titoli pubblici, la reputazione internazionale di cui gode il Paese. Inoltre, va ricordato che il debito pubblico è ricchezza privata e quindi gli effetti attesi dalla perdita di disponibilità di questa ricchezza partono dai consumi e procedono, drammaticamente, sul clima di fiducia di cui abbiamo tanto bisogno.
Infine, la tesi sostenuta da Luigi Pasinetti, con il suo modello dinamico della sostenibilità del debito pubblico, ipotizza implicitamente la possibilità di controllare il tasso d’interesse e il tasso di crescita11). Questa possibilità è invece in larga parte vanificata in presenza di un’ampia mobilità dei capitali e di un’economia aperta, anzi globalizzata, che non tollera regole. Sono illuminanti, in questo senso, le difficoltà poste all’introduzione della Tobin Tax, una tassa da lui proposta nel 1972, che prevedeva di colpire, con un’aliquota tra lo 0,5 e l’1 per cento, tutte le transazioni sui mercati valutari per stabilizzarli, penalizzando lievemente le speculazioni valutarie a breve termine e contemporaneamente per procurare entrate da destinare ai PVS.
Si dice, inoltre, che il debito italiano (oltre 2500 miliardi di euro nel 2020) non sarà mai pagato, come quello mondiale complessivo, 226 trilioni di dollari a dicembre 2020 di dollari, rispetto al PIL mondiale che era pari a 85 trilioni di dollari (il che vuol dire che il rapporto stimato del debito globale/PIL è pari al 250%12) ), e che, però, il sistema finanziario non crollerà perché i creditori non sono interessati a riscuoterlo. Infatti, l’eventuale sua restituzione li priverebbe degli interessi e soprattutto del potere che hanno sui debitori.
Trascurando la temporaneità di questo momento di pausa, qualcuno è andato oltre, tornando ad invocare l’unione fiscale e dimenticando che, nella storia, questa è legata all’unione politica, la sola che si può accompagnare alla disponibilità degli altri paesi a condividere i debiti. Ma sostenere che questa unione sia vicina nel tempo è solo un modo ingenuo, o colpevole, di ingannare la gente. Si deve prendere atto che ancora mancano le condizioni storiche affinché l’utopia di Altiero Spinelli si avveri. Manca la comunione, la condivisione della declinazione culturale, linguistica e religiosa. Manca soprattutto una visione unitaria.
Infine, diversi economisti e politici italiani continuano, ancora oggi, a sostenere che il problema del debito pubblico è nato in Italia negli anni ’80 a causa dell’innalzamento dei tassi d’interesse e che la politica non ne ha colpa. I dati Eurostat mostrano, invece, che il rapporto debito pubblico/PIL in Italia, inferiore alla media europea fino al 1970, iniziò il suo percorso deviante da quel decennio, in cui la contestazione dello Stato e del sistema produttivo condusse la classe politica ad utilizzare diverse forme di illusione finanziaria e fiscale per mantenere il consenso13). Da allora sono passati cinquant’anni. Pertanto, se prima si è parlato di una stagnazione trentennale della nostra economia adesso si deve parlare di cinquanta anni di cattiva politica economica e finanziaria italiana.
Il recente balzo del rapporto debito pubblico/PIL dal 130% al 160%, dovuto soprattutto alle misure contro la pandemia, diventa grave perché si verifica, come si è detto, in una situazione trentennale di sostanziale stagnazione dell’economia italiana. Edwin Domar diceva che il debito non è un problema grave e irresolubile. Non lo è se un Paese cresce, lo diventa se il paese stagna se rimane fermo dinamicamente14).
E nemmeno un’imposta patrimoniale generale servirebbe a scongiurare i rischi ricordati in precedenza, che sarebbero invece allontanati da uno Stato efficiente15). Il dibattito sulla patrimoniale non è nuovo in Italia, le sue applicazioni risalgono agli anni dell’Unità e proseguono fino ai nostri giorni. Nel Paese, vi sono già alcune imposte patrimoniali, che colpiscono la ricchezza liquida e finanziaria (imposta di bollo sui conti bancari), i beni mobili registrati (bollo auto e su natanti) e i beni immobili (imposta di registro e IMU). E ammesso che si introduca un’imposta che colpisca i patrimoni complessivi degli operatori, la sua aliquota non potrebbe che essere minima per non abbattere i prezzi degli assets colpiti, generando basse entrate. Ciò la renderebbe, quindi, inadeguata allo scopo di mettere in sesto i conti pubblici, i cui problemi sono dovuti anche a mezzo secolo di preferenza per la spesa corrente, a volte inefficiente, a discapito degli investimenti pubblici che si sono ridotti senza soluzione di continuità, nonostante l’aumento della pressione fiscale.
Il punto è che questa situazione, che ho cercato di riassumere, viene vissuta da una popolazione senza fiducia e senza speranza, che sperimenta, da qualche decennio, una crisi demografica causata dal calo inesorabile delle nascite. Dove i figli non nascono vuol dire che molte coppie non li mettono al mondo, pur desiderandoli, perché hanno difficoltà a mantenerli e a farli crescere bene e non vedono prospettive di miglioramento che li motivano a farlo. Intanto si respingono gli immigrati che riescono a sbarcare sulle coste italiane o li si maltratta peggio che fossero schiavi. E, se un imprenditore, che ha milioni in banca, non li impiega per scommettere su un progetto dell’economia reale, come reagirà se gli si chiede di sostenere un’imposta sul suo patrimonio?
Da queste considerazioni discende che la strada salutare da percorrere per risanare la finanza pubblica italiana è quella di una ripresa della crescita, più che l’invocazione della cancellazione di una parte del debito o l’introduzione di un’ulteriore imposta patrimoniale. Ma, come si è detto, quel problema non viene affrontato seriamente da decenni, ed è diventato più arduo da quando non si sono più potuti mascherare gli esiti di una cattiva politica economica attraverso l’inflazione, la svalutazione della moneta e una politica incontrollata del debito. E, a partire dalla crisi greca, non è più neanche il tempo in cui l’appartenenza a un’Unione Monetaria consentiva di mascherare il rischio Paese alle Agenzie di Rating e ai mercati finanziari.
Voglio solo ricordare, in conclusione, che ci sono stati due studiosi americani che hanno fatto una ricerca quantitativa, a livello mondiale, per dare una risposta agli effetti del debito pubblico. Guardando a 150 paesi, essi hanno mostrato, con tutti i limiti della loro ricerca, che il finanziamento dell’economia in deficit, quello auspicato da Keynes in tempi di crisi (che in Italia invece è stato usato per troppi in senso prociclico), è una leva positiva per il sistema economico fino a quando il rapporto debito/PIL raggiunge la soglia del 90%, ma muta di segno (da positivo a negativo), quando la supera. Al di sopra di quella percentuale, il debito diventa un peso, una zavorra. Anche se il bilancio pubblico è in pareggio, la variazione del rapporto debito pubblico/PIL dipende dalla differenza tra il tasso di crescita reale del sistema economico e il tasso d’interesse reale16).
L’Italia è un paradiso fiscale, non solo per quanto riguarda i reati di evasione delle tasse, ma anche per quanto riguarda le imposte di successione, come ha ricordato Nicola Paglietti. Questo ci pone davanti a problemi di equità e di efficienza. L’imposta di successione tiene conto dell’incentivo a produrre per chi lascia in eredità un patrimonio, piuttosto che per chi lo riceve, se non quello, eventuale, di essere stato educato a gestirlo. Per quanto riguarda le imprese, i problemi del capitalismo famigliare non sono una novità per il nostro Paese.
Conclusioni
Certamente non bisogna abbandonare la lotta contro il debito. Ma quali strade rimangono da seguire per risanare la finanza pubblica italiana? È stato ricordato che la strada maestra è quella di tornare alla crescita della produttività e del valore aggiunto (pur con tutti i suoi limiti). Ma il debito pubblico è cresciuto, negli ultimi cinquant’anni, nonostante l’aumento della pressione fiscale. Certo c’è l’evasione, ma il debito pubblico non è cresciuto solo perché sono migliorati i servizi17).
Si impone una svolta che non può prescindere da un cambiamento antropologico, a partire dalla politica. Andando in Danimarca, ci si sorprende del fatto che spesso, il cittadino, quando muore, piuttosto che a figli e nipoti, preferisce lasciare l’eredita allo Stato per il modo in cui vengono gestiti i servizi per la comunità. È un’applicazione della Bourdieu Economics18), rara nel nostro Paese.
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Gian Cesare Romagnoli: Università degli Studi Roma Tre.
Email: giancesare.romagnoli@uniroma3.it
Questo è il testo rivisto dell’intervento al Comitato Direttivo dell’ARDeP (Associazione per la riduzione del debito pubblico), Brescia, 12 dicembre 2020.
1 Con questa azione di politica economica si intende una situazione economica in cui il risparmio genera rendite molto basse, inferiori al tasso di inflazione. Di conseguenza il tasso di interesse reale dei titoli del debito pubblico è negativo. Si tratta quindi di una forma indiretta e non esplicita di ristrutturazione del debito pubblico.
2 Il MES, detto anche Fondo salva Stati, è un’organizzazione europea, nata nel 2012, per la stabilità finanziaria della zona euro, che avrebbe dovuto funzionare come fonte permanente di assistenza finanziaria per gli Stati membri in difficoltà, con una capacità di prestito massima di € 500 miliardi. L’assistenza conferita sarebbe però sottoposta a condizioni, trattandosi di uno strumento a disposizione dell’Unione economica e monetaria (UEM) affinché gli Stati adottino le misure necessarie per la stabilità economica, avendo come punto fermo il principio della responsabilità delle finanze pubbliche.
3 Il Private Sector Involvement è una perifrasi per ristrutturazione del debito, ovvero un accordo con il quale le condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) vengono modificate per alleggerire l’onere del debitore. Ciò vuol dire che il MES farebbe credito sia a paesi il cui debito è giudicato sostenibile, ma che sono colpiti da shock esogeni al di fuori del loro controllo (a fronte di una semplice lettera di intenti) sia, sotto condizione, a paesi che non soddisfano tutti i requisiti, a fronte della sottoscrizione di un vero e proprio Memorandum of Understanding (ovvero un accordo bilaterale dettagliato tra il MES e lo Stato membro in difficoltà dell’Eurozona).
4 Vedi, a questo riguardo, Gnesutta C., Rey G.M., Romagnoli G.C. (2008), L’Italia non deve rinunciare alla crescita, in Gnesutta C., Rey G.M., Romagnoli G.C. (a cura di), Capitale industriale e capitale finanziario nell’economia globale, Il Mulino, Bologna.
5 Vedi Corradini L., Romagnoli G.C., (2014), Com’è cambiata l’università: la crisi di un modello e i tentativi di riforma, Dialoghi, n. 2, 30-38., pubblicato anche in Caimi L., De Martin G.C. (a cura di), Dalla scuola all’università, Quaderni di Dialoghi, 7, AVE, Roma, 2015, 79-86.
6 Vedi Romagnoli G.C. (2004), Istituzioni economiche e ristagno, in Salleo F. (a cura di), L’Italia, un paese in declino? Quarantennale delle Borse di Studio “Marco Fanno”, MCC, Roma, 79-90 e Idem (2006), Il declino economico relativo dell’Italia e la Legge Finanziaria 2006, in G. Trupiano (a cura di), Gli aspetti rilevanti della Legge Finanziaria 2006, Aracne, Roma, 31-45.
7 Vedi Romagnoli G.C. (2018), Lezioni di politica economica, Franco Angeli, Milano, 216.
8 Vedi Romagnoli G.C. (1993), Le politiche di sviluppo nel Mezzogiorno, in C. Santoro Lezzi e A. Trono (a cura di), Atti del Seminario Internazionale: “1992 e Periferia d’ Europa. Prospettive regionali del Mercato Unico”, Patron Editore, Bologna, 617-34.
9 Questo perché l’articolo 123 del Trattato (TFUE) sancisce il divieto di operazioni di finanziamento da parte della Bce a favore dei Paesi membri.
10 Vedi, ad esempio, l’articolo recente di Vincenzo Visco a sostegno della proposta di Sassoli: Visco V. (2020), I grandi debiti non si rimborsano, è la storia che lo dice, Il Sole 24 Ore, dicembre. Va ricordato, però, che, nel 2001, quando era Ministro del Tesoro, Visco aveva promosso la partecipazione dell’Italia alla cancellazione del debito estero di 22 paesi poveri con circa 4 miliardi di lire.
11 Vedi Pasinetti L. (1998), The Myth (or Folly) of the 3% Deficit/GDP Maastricht Parameter, Cambridge Journal od Economics, 22, 103-116.
12 Vedi FMI (2020), Record stimato del debito mondiale, Fiscal Monitor, Washington.
13 Vedi Romagnoli G.C. (2016), Debito pubblico e declino economico dell’Italia, Qualeducazione, n. 86,103-127.
14 Vedi Domar E.D. (1946), Capital Expansion, Rate of Growth and Employment, Econometrica, April.
15 Vedi Romagnoli G.C. Le funzioni economiche dello Stato in Italia”, in N. Acocella, G.M. Rey, M. Tiberi (a cura di), Saggi di politica economica in onore di Federico Caffé, volume III, Angeli, Milano 1999, pp.171-200 e Idem (2006), (2006), Istruzione e cambiamenti economici e sociali in Italia”, in L. Corradini (a cura di), Pedagogia e cultura educativa, Saggi in onore di Giuseppe Serio, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2006, pp.239-50.
16 Vedi Romagnoli G.C. (2018), Lezioni di politica economica… cit. 302-305.
17 Vedi Romagnoli G.C. (2016), Debito pubblico e declino…. cit.
18 Vedi Bourdieu P. (1980), Le capital social: Notes provisoires, Actes de la rechehrche en sciences sociales, 31, 2-3.