Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia, che pure hanno subito frequenti declassamenti, hanno in qualche occasione goduto di progressi nelle valutazioni. Tutto ciò potrebbe indurre a pensare ad una nostra scarsa capacità di reazione. In realtà così non è, come evidenziato da alcuni dati molto significativi: una ricchezza netta delle famiglie italiane di circa 10.000 miliardi; un’evidente vitalità e una vocazione internazionale delle nostre imprese; un sistema bancario che si dimostra solido e in grado di realizzare progressive, importanti ristrutturazioni.
Il motivo di questo costante andamento negativo dei giudizi di rating è dunque da attribuire in larga misura alla scarsa capacità dimostrata negli anni dai governi nel riuscire ad affrontare in modo strutturale tutti quei problemi strettamente legati alla gestione delle risorse pubbliche e che penalizzano produttività e crescita economica. Se non si riusciranno a impostare politiche di bilancio in grado di contenere e qualificare la spesa pubblica, il permanere di un giudizio negativo sul nostro debito sovrano avrà inevitabili e pesanti ricadute socioeconomiche sull’intero sistema. La possibilità d’invertire questa tendenza è infatti strettamente legata alla necessità di porre in essere misure di politica economica e fiscale che si propongano due sostanziali obiettivi: evitare scostamenti di bilancio che abbiano obiettivi di breve termine, a meno che non siano giustificati da eventi straordinari come la pandemia; fare in modo che ogni incremento di spesa pubblica sia ancorato a una visione di lungo periodo, con iniziative che si dimostrino efficaci nell’amministrazione del denaro dei contribuenti.
Ogni volta che si crea debito, è la scelta di «allocazione delle risorse» che fa crescere il livello di «reputazione» degli investitori. I mercati non sono disposti ad apprezzare una spesa pubblica prevalentemente indirizzata verso l’aspettativa di assistenza da parte dei cittadini. Al contrario, il loro giudizio migliora quando la spesa è finalizzata ad alimentare la crescita, come nel caso d’investimenti sulla formazione professionale, sulla scuola, sulla ricerca, sulle nuove tecnologie, su infrastrutture stradali e ferroviarie e sulla salvaguardia e il riassetto dei territori. Su tutti questi temi, e in particolare sulla differenza tra «debito buono» e «debito cattivo», Mario Draghi è sempre stato moto chiaro e molto netto, così come nel corso di un intervento dello scorso luglio all’Accademia dei lincei: «Debito buono è quello che è orientato a favorire il tasso di crescita strutturale dell’economia perché in questo caso contribuisce a migliorare il rapporto tra debito e Pil», aggiungendo che «il debito può rafforzarci se ci permette di migliorare il benessere del nostro Paese come è avvenuto durante la pandemia».
In merito poi alla necessità di un utilizzo mirato di quella parte di debito (circa 120 miliardi) che il nostro Paese ha contratto con l’approvazione del Pnrr, ed il cui impiego sarà certamente monitorato da parte degli investitori internazionali, sempre Draghi ha evidenziato come «l’abbondanza di mezzi finanziari pubblici e privati sono circostanze eccezionali per le imprese e le famiglie che investiranno capitali e risparmi in tecnologia, formazione, modernizzazione. Ma è anche il momento favorevole per coniugare efficienza con equità, crescita con sostenibilità, tecnologia con occupazione».
La recente legge finanziaria approvata in breve tempo dal nuovo governo non sembra avere una «visione» ancorata a questi principi. Va dato grande merito, però, a Giorgia Meloni di non aver fatto ricorso a scostamenti di bilancio, nonostante le sconsiderate pressioni di qualche suo alleato.