Ci sono molti provvedimenti assai discutibili nella legge di Bilancio presentata al Parlamento dal Governo guidato da Giorgia Meloni: l’innalzamento del tetto del contante a 5’000 euro, l’aumento (da 30 a 60 euro) per i negozianti della soglia per l’obbligo di consentire il pagamento con moneta elettronica, l’incremento (da 65’000 a 85’000 euro) del tetto di reddito per l’applicazione della flat tax al 15% soltanto per i lavoratori autonomi, il condono per tutte le cartelle esattoriali fino a 1’000 euro emesse dal 2000 al 2015, ecc.
È evidente che queste scelte vanno a favore di alcune categorie di cittadini (anzitutto evasori fiscali e lavoratori autonomi) a scapito di tutti gli altri. Di conseguenza sono assai difficili da giustificare. Ad esempio, in quale caso una persona avrebbe la necessità di fare un singolo acquisto del valore di 5’000 euro in contanti? Per quale ragione un lavoratore autonomo con un reddito di 85’000 euro dovrebbe pagare soltanto il 15% di imposta, mentre ad un lavoratore dipendente con uguale reddito si applica un’aliquota fino al 43%? Che cosa dovrebbe pensare il cittadino che correttamente ha pagato il debito delle cartelle esattoriali constatando che chi non l’ha fatto potrà usufruire di un condono e nulla pagherà?
Autorevoli esponenti del Governo hanno dichiarato che questo è soltanto l’avvio di un processo di riforma fiscale. In prospettiva si vorrebbero ridurre (da quattro a tre) le aliquote IRPEF. È curioso come questa proposta venga sbandierata come una novità, facendo finta di non sapere che era già stata prevista lo scorso anno dal documento della Commissione Finanze del Parlamento e dalla legge di Bilancio elaborata dal Governo Draghi. Nel merito non c’è bisogno di essere laureati in matematica per capire che un minore numero di aliquote fiscali determina scaglioni più distanti con minore continuità nella progressività. In altre parole ci sarà meno equità nella distribuzione dell’imposta.
Maurizio Leo, viceministro dell’Economia, ha preannunciato l’introduzione del «quoziente familiare che tiene conto del reddito del nucleo come sommatoria di tutti i redditi applicando poi al denominatore dei coefficienti in base alla numerosità della famiglia» in sostituzione dell’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), che serve a valutare la reale situazione economica delle famiglie. Forse il viceministro non sa che il valore dell’ISEE è già stabilito in base al quoziente familiare. C’è però una differenza fondamentale: l’attuale ISEE tiene conto sia dei redditi sia dei patrimoni, invece il quoziente familiare fa riferimento soltanto ai redditi. Di conseguenza, chi vive di rendita (e non lavora) sarà avvantaggiato, mentre chi non ha proprietà e dispone soltanto di redditi verrà penalizzato.
Il 20 novembre scorso ricorreva il cinquantesimo della morte di Ennio Flaiano. Una delle sue battute resta sempre attuale: «La situazione politica in Italia è grave ma non è seria».