Negli ultimi trent’anni, dal Trattato di Maastricht a oggi, si contano almeno 180 ipotesi di riforma del Patto di Stabilità e Crescita, cioè delle norme che dovrebbero garantire la disciplina di bilancio dei Paesi dell’euro. Di riforme effettive dello stesso Patto ce ne sono state invece solo tre (2005, 2011 e 2013), peraltro non sempre in linea con le aspettative dell’Italia. Legittimo chiedersi, dunque, quali possibilità di successo abbia la proposta di riforma presentata da Roma negli scorsi giorni, dopo la sospensione de facto del Patto di stabilità e crescita a causa della pandemia e alla vigilia del ripristino dello stesso a inizio 2023. Del progetto italiano, innanzitutto, va valutata la coerenza economica. Il Presidente del Consiglio Draghi, intervenendo sul Financial Times in tandem con il Presidente della Repubblica francese Macron, ha sostenuto che la nuova «cornice» fiscale europea dovrà tenere conto di sfide come crisi climatica e della biodiversità, tensioni geopolitiche e militari, evoluzioni tecnologiche e demografiche.
Per questo motivo, «non c’è dubbio che dobbiamo ridurre i nostri livelli di indebitamento – hanno scritto Draghi e Macron – Tuttavia non possiamo aspettarci di farlo attraverso tasse più alte o tagli insostenibili alla spesa sociale, né possiamo soffocare la crescita con aggiustamenti fiscali impraticabili». Da una parte quindi occorrerà «contenere la spesa pubblica ricorrente attraverso riforme strutturali», dall’altra andrà creato lo spazio per i «necessari investimenti». «Il debito fatto per finanziare tali investimenti, di cui beneficeranno indiscutibilmente le future generazioni e la crescita di lungo termine, dovrebbe essere favorito dalle regole fiscali – hanno scritto i due leader – visto che questo tipo di spesa pubblica contribuisce in realtà alla sostenibilità del debito nel lungo periodo».
È la «golden rule» cui fanno riferimento, in un paper tecnico fatto circolare contestualmente da Palazzo Chigi ed Eliseo, gli economisti Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Weymuller. Secondo questi studiosi, è utile facilitare la spesa «per i beni pubblici europei di cui beneficeranno le future generazioni» – come la transizione ecologica e quella digitale – facendo sì che essa non conti ai fini del raggiungimento del tetto annuo alla spesa pubblica e che goda di un trattamento preferenziale, consentendo di ridurre più gradualmente i debiti che ne derivano. Lo studio in questione, con dovizia di dettagli e in linea con le analisi dello European Fiscal Board, tenta di coniugare flessibilità delle nuove regole fiscali (per evitare eccessi di austerità in momenti di recessione), semplicità (per fornire un indirizzo chiaro a politici e opinione pubblica) ed esecutività delle stesse (devono esserci conseguenze per chi non le rispetta). In sintesi, l’Italia punta a introdurre nelle regole europee l’idea draghiana di un «debito buono» che non sottrae risorse alla comunità.
La coerenza economica del progetto, tuttavia, non è di per sé garanzia di successo. La scrittura delle nuove regole fiscali europee non avverrà infatti nella placida atmosfera di un’aula universitaria ma in un agone diplomatico agitato dalle prevedibili resistenze di altri Paesi, per esempio i cosiddetti «frugali». Da questo punto di vista, la forza della proposta di Roma deriva dal fatto di presentarsi fin all’inizio come sforzo congiunto di due Paesi fondatori dell’UE, Italia e Francia, quest’ultima destinata a presiedere l’Ue nel prossimo semestre. Tutti elementi che peseranno nel determinare l’atteggiamento del terzo principale attore europeo, la Germania, già alle prese con un ripensamento della propria politica comunitaria figlio dei nuovi equilibri di governo.
Per la riuscita del piano italiano sarà decisiva, infine, la credibilità politica nazionale. Nelle prossime settimane, sarà proprio guardando al dispiegamento del nostro Piano nazionale di riforme e resilienza che Bruxelles e le altre capitali potranno avere la dimostrazione che il «debito buono» non esiste soltanto in teoria e che una maggiore spesa pubblica può avanzare di pari passo con incisive riforme strutturali. Sarà il test più difficile per quel «moltiplicatore psicologico» del credito internazionale al quale ha fatto riferimento Draghi nella sua conferenza stampa di fine anno.
(Tratto da L’Eco di Bergamo del 27 dicembre 2021)