Caro direttore,
bene ha fatto il suo giornale – penso a diversi interventi e in particolare all’editoriale di Francesco Gesualdi del 21 luglio 2021 – a richiamare l’attenzione sulla riforma del fisco, che in settembre il Governo dovrebbe formalizzare sulla base del documento conclusivo della “Indagine conoscitiva sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario” approvato il 30 giugno scorso dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato. Stupisce la scarsa informazione su questo passaggio, a maggior ragione se confrontata con il clamore della discussione politica rispetto ad altri provvedimenti, compresi il MES e il PNRR. Anche soltanto confrontando le cifre, siamo a un livello molto diverso.
Le entrate statali, tra imposte e contributi, ammontano a oltre 800 miliardi di euro ogni anno cioè circa il 50% del PIL. Il MES riguarderebbe poche decine di miliardi una tantum, mentre i finanziamenti in arrivo dall’Europa ammontano a circa 220 miliardi in 7 anni, cioè poco più di 30 miliardi l’anno. Insomma, il sistema tributario è di gran lunga più rilevante rispetto a ciò di cui molto si discute. Non solo: l’ultima riforma strutturale del fisco risale ai primi anni 70 del Novecento, cioè 50 anni fa. Di conseguenza è assai probabile che quanto verrà stabilito a breve dal Governo e dal Parlamento resterà operativo per i prossimi decenni. Tutte le leggi di bilancio dei prossimi anni saranno condizionate fortemente dal tipo di riforma che verrà messa in campo. Altrettanto si può dire dell’evoluzione del debito pubblico del nostro Paese, che molto dipenderà dalle risorse che il sistema fiscale riuscirà a raccogliere. Per questo il forte richiamo di “Avvenire” a questo tema è assolutamente pertinente.
È difficile prevedere quali scelte effettuerà il Governo. Conosciamo però le indicazioni del Parlamento. Ad esempio, uno dei principali problemi dell’attuale sistema fiscale è dovuto a quei redditi che sfuggono al criterio della progressività costituzionale, attraverso l’applicazione di imposte sostitutive proporzionali (di fatto si tratta di “flat tax“). Dalle Commissioni parlamentari ci si sarebbe aspettati la richiesta che l’imposta progressiva fosse applicata al cumulo di tutti i redditi percepiti da un contribuente. Invece, nel documento si afferma che «tale opzione presenta numerose conseguenze di tipo economico e politico, in quanto implicherebbe l’incremento anche sostanziale della tassazione su diverse categorie reddituali». Insomma, il cumulo dei redditi sarebbe giusta ma penalizzerebbe le categorìe con patrimoni ragguardevoli. Quindi, non s’ha da fare …
Il documento affronta anche il nodo dell’unità impositiva: è più corretto che le tasse vengano pagate dal singolo individuo oppure dalla famiglia? Le Commissioni parlamentari pongono il problema in modo corretto: «La scelta dell’individuo presuppone che la sua capacità contributiva sia indipendente dalle scelte personali in merito alla composizione del nucleo familiare. La scelta della famiglia invece presuppone l’esistenza di economie di scala e che le decisioni degli individui vengano prese in base al flusso di reddito complessivo del nucleo familiare». Ma la risposta è deludente: si «concorda che sia opportuno mantenere il reddito individuale come unità impositiva dell’imposta personale sui redditi». Purtroppo il documento nulla dice sulla palese schizofrenia dell’attuale sistema: le Imposto sul redditi (IRPEF) si applicano ai singoli, mentre il principale strumento per le agevolazioni (ISEE) è improntato su patrimoni e reddito della famiglia.
La principale proposta di modifica indicata dal documento parlamentare riguarda l’IRPEF con l’ipotesi di diminuire l’aliquota nella fascia di reddito tra 28 e 55 mila euro. Sembrerebbe a prima vista una proposta di riduzione delle imposte per il ceto medio. Ma è proprio così? In Italia su 60 milioni di abitanti i contribuenti sono circa 41 milioni, attualmente suddivisi in 5 scaglioni di redditi. Nel primo scaglione (fino a 15 mila euro) ci sono circa 18 milioni di persone. In quello successivo (da 15 a 28 mila euro) circa 14 milioni di contribuenti. Nel terzo scaglione (appunto, da 28 a 55 mila euro) sono circa 7 milioni. Poi quasi un milione di contribuenti nel quarto scaglione (da 55 a 75 mila euro) e altrettanti nel quinto scaglione (oltre 75 mila euro). Pertanto se consideriamo gli ultimi tre scaglioni (oltre 28 mila euro), troviamo in totale circa 9 milioni di individui, che rappresentano poco più del 20% dei contribuenti.
Tenendo conto di questi dati, di fatto le indicazioni delle Commissioni parlamentari di diminuire le imposte ai contribuenti del terzo scaglione risulta favorevole ai ceti più abbienti. Lo conferma il fatto che non verrebbe compensata da un aumento delle aliquote del quarto e del quinto scaglione. Ciò significa che lo sconto che verrà fatto ai contribuenti del terzo scaglione, ovviamente varrà anche per quelli degli scaglioni successivi, che usufruiranno del medesimo sconto. Insomma, dovrebbero essere soprattutto I più ricchi a risparmiare, pagando meno lasse.
Nel documento c’è anche un paragrafo dedicato alle imposte sul reddito di impresa. Le Commissioni partono dal fatto che attualmente il prelievo fiscale sull’imprenditore individuale (o socio di una società di persone) dipende dall’aliquota marginale e quindi dal reddito complessivo IRPEF, mentre sulle società di capitale insiste un prelievo proporzionale, attualmente fissato al 24%. Secondo logica e in una visione costituzionale, verrebbe da chiedersi perché le società di capitali abbiano il privilegio di una tassazione proporzio naie. Le Commissioni, invece, si pongono nella prospettiva opposta, proponendo che anche le imprese individuali possano optare per la tassazione proporzionale, opportunità già concessa per ricavi inferiori a 65 mila euro annui.
Per quanto riguarda la tassazione dei redditi finanziari, il documento spiega che queste tipologie di reddito sono – nella maggioranza dei casi – sottoposte a un’aliquota sostitutiva proporzionale attualmente fissata al 26%. Le Commissioni segnalano che «tale aliquota andrebbe allineata alla prima aliquota progressiva sui redditi di lavoro», cioè sarebbe opportuno diminuirla al 23%. Si tratterebbe di uno sconto di oltre il 10% sulle attuali imposte per i redditi finanziari. In realtà non si capisce per quale ragione i guadagni in campo finanziario debbano essere parificati al reddito dei contribuenti meno abbienti, quelli che al massimo arrivano a 15 mila euro di reddito. Dato che i redditi finanziari evidentemente appartengono alle classi più agiate, anche non considerando il cumulo dei redditi, sarebbe più coerente applicare almeno un’aliquota mediana come quella del terzo scaglione, che è del 38%.
Condivisibile invece l’indicazione sull’IVA: il documento parlamentare definisce opportuna una «possibile riduzione dell’aliquota ordinaria attualmente applicata». L’IVA, infatti, è considerata un’imposta regressiva, poiché colpisce i redditi in forma decrescente: l’imposta sui consumi penalizza i meno abbienti, costretti per vivere a spendere tutto ciò che guadagnano. Peccato che le Commissioni non spieghino come sia possibile ridurre contemporaneamente le imposte dirette (sui redditi del terzo e successivi scaglioni) e quelle indirette (sui consumi). A logica – per mantenere la parità di gettito – se un’imposta diminuisce l’altra deve aumentare. A meno che si voglia per scelta esplicita diminuire il gettito fiscale complessivo, con la conseguenza inevitabile di minori risorse per le spese sociali (scuole, ospedali, ambiente. ecc.) o di un ulteriore aumento del debito pubblico a carico delle prossime generazioni.
Presidente ARDeP (Associazione per la Riduzione dei Debito Pubblico)
Pubblicato sul quotidiano Avvenire il 10 agosto 2021