L’annunciata riforma “complessiva” del fisco dal neo premier Mario Draghi si propone di smantellare un sistema, ormai ridotto a brandelli, in cui si sono stratificati interventi di modifica, esenzioni, detrazioni e benefici a favore di categorie o gruppi di riferimento delle diverse fazioni politiche al potere nel Paese negli ultimi cinquant’anni. Di esempi potremmo farne molti, come l’ultimo, confermato dalla legge di bilancio 2021 del taglio del cuneo fiscale, riservato ai soli lavoratori dipendenti e assimilati, ulteriore beneficio concesso in attesa di una revisione delle detrazioni fiscali e degli strumenti a sostegno del reddito, che costerà agli italiani 13,5 miliardi nel 2021. Dal discorso del neo premier al Parlamento sembra che l’intenzione sia quella di un ritorno, almeno nei principi se non nei numeri, all’ultima riforma organica del fisco attuata dal Ministro Visentini nel 1974, ma non sono mancati accenni a modelli fiscali di altri paesi come quello della Germania e della Danimarca.
Quello della Germania è un modello fiscale che, attraverso l’uso di un algoritmo matematico, assicura una progressività senza scaglioni, lenta ma continua, con aliquote dal 14% al 42% applicate ai redditi da 9’409 € fino a 54’949 €. I redditi successivi sono tassati rispettivamente al 42% (da 54’950 a 260’532 €) e al 45% per tutti i redditi superiori a 260’533 €. A fronte di una solo apparente semplicità, tale modello risulta invece molto complesso, perché si articola in sei classi fiscali valide solo per i lavoratori dipendenti in cui questi ultimi si devono classificare a seconda di elementi soggettivi che caratterizzano il loro status (single, sposato o convivente, separato, single con figli, etc.).
Il sistema prevede che la base imponibile sia costituita da tutti i redditi percepiti dai cittadini per l’attività esercitata nel Paese ma anche per quella esercita all’estero, ad eccezione dei redditi finanziari che sono tassati direttamente dalla banca, ove non superino l’importo di 801,00 €, con un’imposta proporzionale del 25%. Gli oneri deducibili dal reddito sono quelli legati all’attività lavorativa (abbigliamento e strumenti di lavoro, cancelleria, pubblicazioni, spese viaggio) alle spese per i figli a carico (assistenza educazione formazione) a spese mediche straordinarie.
Il contribuente per conoscere l’ammontare dell’imposta da pagare deve necessariamente servirsi di un calcolatore a disposizione sul sito del Ministero delle Finanze che determina l’importo dell’imposta previa indicazione dello stipendio lordo annuo e della classe fiscale. Data la complessità non può calcolarsi l’imposta da solo. Tale metodo non aiuta il contribuente a capire come viene determinato il suo peso fiscale e, come tale, appare poco trasparente, tenendo conto anche del fatto che annualmente i parametri di calcolo vengono modificati.
Da mutuare da questo modello, a mio avviso restano due aspetti: il primo riguarda la no tax area, attualmente di € 9’408, che è esente per tutti i redditi a prescindere dal loro ammontare a differenza di quanto avviene in Italia dove, al superare del valore della quota esente, diversa a seconda della tipologia di reddito, si paga l’aliquota del 23% per tutto il reddito e non solo per l’importo in eccesso. Sistema che altera l’aliquota marginale effettiva del contribuente. L’altro aspetto riguarda il sistema di progressività lenta, ma continua per la fascia di reddito più comune (da 9’409 a 54’949 €) in quanto i due scaglioni successivi funzionano esattamente come gli scaglioni del sistema italiano.
Il sistema fiscale danese è anch’esso improntato, come quello tedesco, alla progressività con aliquote molto più elevate di quelle italiane e tedesche. Ma occorre ammettere che il sistema di protezione sociale della Danimarca è di gran lunga più efficiente di quello di altri Paesi. L’aliquota massima è del 55,8% ma ciò che colpisce dell’esperienza danese è la semplicità attuata attraverso una riforma fiscale avvenuta nel 2008, che ha di fatto messo sotto controllo l’evasione fiscale attraverso controlli efficienti da parte dell’amministrazione fiscale.
Il riferimento di Mario Draghi all’ultima grande riforma italiana del 1974, che ha segnato la nascita dell’IRPEF con il decreto 597 del 1973 è significativo per l’impronta fortemente progressiva assicurata al sistema di tassazione personale, con l’istituzione di 32 scaglioni di reddito (tra 2 e 500 milioni di lire) e altrettante aliquote (dal 10% al 72%). Le aliquote erano articolate con una progressione numerica di 2 massimo 3 punti percentuali, in modo tale da assicurare una progressività pressoché continua, offrendo senza l’uso di ulteriori modelli matematici, la massima trasparenza nel calcolo dell’imposta.
Tale riforma, per quanto sia stata ritenuta allora incompleta e suscettibile di miglioramenti, rappresenta il culmine della progressività del sistema fiscale italiano, che ebbe tuttavia vita breve perché a distanza di 9 anni le aliquote da 32 si ridussero a 9, e nel 1989 a sole 7 per diventare cinque nell’odierno sistema. Ma ciò che ha compromesso in via definitiva la sua funzionalità è stato il sistema di deduzioni, detrazioni e benefici che hanno di fatto stravolto la sua natura fortemente progressiva, generando forti disuguaglianze tra i contribuenti. Oggi, con l’applicazione del taglio del cuneo fiscale, confermato dalla legge di bilancio 2021, su 28’000 € di reddito annuo un lavoratore dipendente pagherà 4’782 € di IRPEF; un lavoratore autonomo a partita IVA ne pagherà 4’200, e un pensionato 6’085.
Un punto di partenza per lavorare su una riforma complessiva della tassazione in Italia non può prescindere che dall’esperienza italiana, più che da quelle adottate in altri Paesi che, tuttavia, offrono spunti interessanti da mutuare. Ma è importante che il nuovo modello non sia suscettibile, come lo è stato quello del 1974, di alterazioni significative tali da snaturarne l’impianto e renderlo inadeguato a preservarsi da somme ingiustizie e sperequazioni.
Fonte: https://www.laportadivetro.org/riforma-del-fisco-per-draghi-un-ritorno-al-passato/