In Italia, come un fiume carsico, periodicamente salta fuori l’idea di una tassa patrimoniale. Che poi, puntualmente, evapora. Chi la contrasta garantisce che la muove un atavico odio verso i ricchi, così radicato in un Paese che per decenni ha avuto il più grande partito comunista dell’Europa occidentale. E che comunque non colpirebbe soltanto i veri ricchi. Chi la vuole sostiene invece che serve a ridurre le disuguaglianze in un Paese (Nicola Fratoianni dixit) nel quale “l’1% della popolazione ha il 25% della ricchezza”.
Dove sta la ragione? È vero che le disuguaglianze sono sempre più grandi, e sono cresciute a dismisura nell’ultimo anno. Il Covid le ha amplificate, anche per l’incapacità della politica di dare risposte efficaci e rapide alla parte della società più in sofferenza. Ma è anche vero che nel fronte dei patrimonialisti sopravvive qualche scoria ideologica, che impedisce di scorgere nitidamente la natura del problema e le degenerazioni che l’hanno determinato.
I conti, prima di tutto. Secondo gli esperti la base imponibile per una eventuale patrimoniale ammonta a 3.743 miliardi di euro. Questa è la somma del valore degli immobili (1.795 miliardi) e delle attività finanziarie (1.948 miliardi) effettivamente tassabili. In realtà gli immobili di proprietà privata in Italia valgono molto di più: la stima parla di 6.295 miliardi, almeno tre volte e mezzo il prodotto interno lordo. Ma è una cifra che comprende 3.500 miliardi di euro di prime case, e un migliaio di miliardi di immobili strumentali delle imprese. Così anche le attività finanziarie complessive sono ben superiori: 4.374 miliardi, due volte e mezzo il pil. Però da tale importo bisogna sottrarre le assicurazioni (circa 500 miliardi), i depositi bancari (un migliaio di miliardi) e le passività finanziarie (926 miliardi). Così alla fine la base imponibile resta, appunto, di 3.743 miliardi. Se a questa si applicasse una imposta patrimoniale, poniamo, dell’1 per cento, l’Erario ricaverebbe un gettito di 37 miliardi. Del tutto simile a quello delle imposte patrimoniali già esistenti. Perché ce ne sono, eccome. C’è l’IMU sulle seconde case, quindi le varie imposte di bollo e sulle transizioni finanziarie, che cumulano intorno ai 35 miliardi. Senza contare, ovviamente, la patrimoniale più diffusa che incassano le Regioni. Ossia il bollo auto, imposta nata come tassa di circolazione per finanziarie la costruzione e la manutenzione delle strade e trasformata in tassa di proprietà: poco meno di 7 miliardi.
Esiste poi un altro versante non trascurabile ai fini del ragionamento. Ed è quello delle attività finanziarie all’estero, non sempre regolari, che si riproducono a un ritmo impressionante. Basta guardare i risultati dei diversi scudi fiscali per farsi un’idea di quanto sia tuttora radicata la propensione all’esportazione illegittima dei capitali. Ma fermandosi alle sole posizioni di cui il Fisco ha contezza, nel 2018 l’Agenzia delle Entrate ha censito ben 3 milioni 126.549 conti finanziari esteri riconducibili a soggetti residenti in Italia. Per un controvalore cumulato che si aggira sui 190 miliardi di euro. Le posizioni considerate rischiose per cui l’Agenzia delle entrate ha aperto un dossier sono circa 35 mila. Completa lo scenario il capitolo dei profitti delle multinazionali di fatto italiane trasferiti in paradisi fiscali o in Paesi con trattamenti di favore. Il National bureau of economic research di Cambridge stima un ordine di grandezza pari a 20 miliardi l’anno, dei quali 17 miliardi dirottati verso Paesi dell’Unione europea: Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta e Cipro.
Altre frecce, anche queste, all’arco di quanti invocano il giro di vite sui patrimoni. Accentuando la sensazione di iniquità del sistema fiscale, con le ricchezze capaci di imboccare le strade più insolite pur di sfuggire al dovere di contribuire al mantenimento della società. Il fatto è che non è soltanto una sensazione. L’iniquità è andata crescendo negli ultimi anni, pian piano. Perché con una serie di interventi mirati la progressività del nostro sistema tributario, incisa sulla pietra dell’articolo 53 della Costituzione, si è decisamente affievolita. In generale a vantaggio di chi ha di più o meglio sa sfruttare le pieghe di leggi, regolamenti e circolari. I redditi delle attività finanziarie, per esempio, sono quasi sempre esclusi dall’imponibile delle persone fisiche. Su quelli degli imprenditori in regime forfetario si paga poi un’imposta sostitutiva: quei redditi non sono soggetti alle aliquote progressive dell’IRPEF. Al pari di alcuni premi di produttività corrisposti a particolari categorie di lavoratori dipendenti. Per non parlare della cedolare secca sugli affitti a uso abitativo, che può avere effetti incredibili, come quello del proprietario di qualche centinaio di appartamenti a canone concordato che può tranquillamente risolvere i propri doveri fiscali pagando un misero 10 per cento.
Per dare un’idea delle dimensioni del vantaggio che può dare tale sistema, valga una ricognizione compiuta una quindicina d’anni fa a Roma dalla società incaricata dal Campidoglio di gestire le pratiche del condono edilizio. Da questa saltarono fuori più di 1.600 soggetti, persone fisiche o giuridiche, ognuno dei quali proprietario di oltre 500 unità immobiliari. Clamoroso, qualche anno più tardi, il caso dell’erede di un famoso palazzinaro che possedeva 1.243 appartamenti sui quali non veniva pagata l’IMU al Comune di Roma. La cosa fu scoperta dalla Guardia di Finanza, con gli uffici comunali evidentemente ignari: nonostante quasi tutti questi appartamenti fossero affittati proprio al Comune, che li utilizzava per l’emergenza abitativa.
In passato abbiamo anche assistito a un curioso trasferimento di prelievo fiscale in direzione patrimoniale per alleggerire le tasse sui redditi più elevati. Accadde con la legge finanziaria del 2005, l’ultima del secondo governo presieduto da un Silvio Berlusconi già in affanno nei sondaggi. Il taglio dell’IRPEF preteso dal Cavaliere a vantaggio dei maggiori scaglioni fu compensato con un corrispondente incremento di imposte di bollo e altre tasse. Tornato al governo il centrosinistra, due anni dopo quel beneficio fiscale per i redditi alti venne abolito: al contrario degli aumenti dei bolli e di altri balzelli, mai toccati.
In un Paese con tante storture le argomentazioni di chi si ostina a chiedere la patrimoniale non sarebbero certo prive di fondamento. Curioso però che non si chieda prima di tutto il ripristino della progressività del contributo dovuto da ciascuno di noi sancita dalla Costituzione, e si proponga invece di risolvere il problema dell’equità fiscale introducendo un’altra tassa. Quando sarebbe sufficiente rimettere semplicemente in sesto l’Irpef per evitare discussioni inutili. Naturalmente oltre a una seria e doverosa lotta all’evasione fiscale e contributiva: un centinaio di miliardi l’anno, dicono le statistiche.
(tratto da Repubblica del 7 dicembre 2020)