Lo sviluppo sostenibile
Da qualche tempo al sostantivo “sviluppo” si usa affiancare l’aggettivo “sostenibile”, segno di una crescente sensibilità ecologica dei vari protagonisti politici.
Ma questa sensibilità si ferma quasi sempre qui, sul più bello. Che cosa significa infatti “sviluppo sostenibile”? Maggior attenzione all’impatto sull’ambiente della crescita economica? Certamente. Ma siamo arrivati a un punto in cui questo non basta più, se è vero, come sostengono gli studiosi di questi fenomeni, che lo stile di vita del mondo consuma più risorse di quante la terra sia in grado di riprodurre. Spalmando i nostri consumi su un anno, la terra riesce a rigenerare le risorse consumate fino a luglio-agosto; da settembre in poi ci stiamo mangiando un patrimonio che ha richiesto centinaia di migliaia di anni per essere costruito.
Ad aggravare questa situazione sta la profonda diversità tra Paesi e Continenti. Abbiamo Paesi che consumano moltissimo, come gli USA e i Paesi europei e Paesi che consumano molto poco, come quelli africani. Paesi che si stanno sviluppando molto in questi anni, come la Cina, l’India e la Russia che non vogliono porre limiti ecologici alla propria crescita e accusano l’Occidente di egoismo in quanto, dopo decenni di crescita senza limiti, si starebbero accorgendo adesso, che la crescita riguarda altri, dei suoi effetti negativi sull’ambiente e sulla tenuta sociale ed economica.
E, in effetti, da alcuni anni a questa parte la crescita di alcuni ex-Paesi poveri è superiore a quella dei Paesi industrializzati. Tanto che il mondo sta vivendo un movimento positivo in termini di disuguaglianza: diminuiscono le distanze tra i diversi Paesi (segnatamente tra quelli più sviluppati e quelli in via di sviluppo). Dico “positivo” perché, se vogliamo che le distanze tra Paesi ricchi e poveri diminuiscano, bisogna che i secondi abbiano una crescita superiore ai primi.
Dunque abbiamo un primo grande problema: riguarda la differenza (ancora molto grande) tra Paesi ricchi e poveri. Occorre lasciare più spazio alla crescita dei secondi, se vogliamo che la distanza di reddito spendibile rispetto ai primi continui ad assottigliarsi. Ma questo spazio in più di crescita va compensato con una minor crescita dei Paesi ricchi. È questa, a mio parere, una delle affermazioni più coraggiose e “rivoluzionarie” dell’Enciclica “Laudato sii” (paragrafo 193).
Infatti i dati dimostrano che non è vera la teoria in base alla quale lo sviluppo dei più ricchi avrebbe “trascinato” anche i poveri verso il benessere: le distanze si stanno allungando. Pochi ricchi lo diventano sempre di più e molti poveri aumentano la loro povertà. Questo sta avvenendo in tutti i Paesi: quelli ricchi, quelli in via di sviluppo e quelli poveri.
Abbiamo perciò un secondo grande problema: l’aumento delle disuguaglianze tra ricchi e poveri a livello mondiale. È sostenibile a lungo questa situazione? O ci stiamo scontrando con limiti sociali che prima o poi esploderanno? I sintomi che un rifiuto è già in atto già ci sono: l’affermazione in tutta Europa dei movimenti e dei partiti sovranisti e populisti è un segno chiaro di un malessere profondo che nasce dalla delusione delle politiche portate avanti in questi anni dai partiti cosiddetti tradizionali. È la risposta sbagliata – di chiusura e arroccamento – a un problema vero, che si è manifestato in questo ultimi vent’anni.
La via d’uscita, da molti sostenuta, è una ripresa della crescita nei Paesi ricchi. Ma questa cozza con i problemi ecologici ricordati prima. È quindi un problema complicato: da un lato i problemi sociali richiederebbero una crescita maggiore dell’economia, dall’altro la crescita maggiore ha effetti negativi sulla tollerabilità ambientale, già abbondantemente superata.
La risposta a questo dilemma è che la crescita sia, appunto, sostenibile, cioè a impatto ambientale vicino allo zero.
In effetti una parte importante della manifattura si sta spostando verso i Paesi in via di sviluppo, dove il costo del lavoro è molto più basso che nei Paesi di più antica industrializzazione. Ma questo “sviluppo sostenibile” è in grado di rimpiazzare completamente quello “non sostenibile” di mezzo secolo fa, basato sull’industria che produceva beni di consumo di massa (automobili, elettrodomestici, case, ecc.)? La maggior parte degli studiosi sostiene di no. Cioè, nel lungo periodo, le ore di lavoro disponibili caleranno, perché saranno maggiori le ore perse per lo spostamento a est di parte della manifattura e la continua innovazione tecnologica, di quelle guadagnate per progettare e produrre l’innovazione stessa.
Bisognerà quindi riprendere al più presto la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro, anche se con modalità diverse da quella fatta, senza grandi successi, negli anni ’80. Qui basterà dire che già oggi in Italia si lavora 200..250 ore in più all’anno che in Germania, ed è questa una delle ragioni della minor produttività del nostro Paese; com’è noto infatti le ultime ore della giornata sono meno produttive delle prime.
Un’altra questione è se non bisogna introdurre nella misurazione dello sviluppo dei criteri aggiuntivi al PIL (Prodotto Interno Lordo), come l’aspettativa di vita, il grado di istruzione, l’inquinamento, la possibilità di realizzarsi? E fare una distinzione tra crescita (misurabile con il PIL) e sviluppo (misurabile con altre variabili oltre al PIL)? Ma anche questo cambiamento non cambierebbe lo stato delle cose per cui ci sono Paesi più indebitati – come l’Italia, dove il rapporto debito/PIL ha superato il 130% – e Paesi molto meno indebitati – come la Germania.
Il deficit e il debito pubblico sono due grandezze ben distinte, anche se spesso usate come sinonimi.
Il deficit pubblico è lo squilibrio, che si realizza in un anno, tra entrate e uscite dello Stato a favore delle seconde. Il suo rapporto col PIL è un indicatore molto usato dagli osservatori economici e dai Governi. Il trattato di Maastricht fissa a un massimo del 3% questo rapporto. L’Italia, da questo punto di vista, è virtuosa, perché da molti anni questo rapporto è inferiore al 3%.
Il debito pubblico, invece, è l’accumularsi nel tempo di tutti i deficit annui. Tutti i Paesi hanno un debito pubblico, ma il trattato di Maastricht prevede un tetto massimo dei debito pubblico, in rapporto al PIL, del 60%. Da questo punto di vista l’Italia è gravemente inadempiente perché il suo rapporto debito/PIL supera il 130%. Ed è su questo secondo rapporto che insiste l’Europa per ridurlo, non sul primo. Ma tra il primo e il secondo c’è una relazione: tanto più alto è il primo (deficit/PIL) tanto più aumenta anche il secondo (debito/PIL).
La formula a cui si fa riferimento è:
deficit – (crescita economica reale + inflazione) = + variazione del debito
da cui si deduce che, se la somma tra crescita economica reale e inflazione è maggiore del deficit il debito diminuirà, se è minore il debito aumenterà.
Da studi fatti recentemente, risulta che la crescita che possiamo aspettarci nel lungo periodo è dell’1..1,5%. Con un’inflazione vicina allo zero ci sono poche possibilità che la somma di queste due grandezze (crescita reale + inflazione) superi il deficit annuo e riduca perciò il debito.
Occorre tener conto dei diversi problemi che abbiamo sollevato:
- crescita nei Paesi in via di sviluppo maggiore di quella dei Paesi già sviluppati per continuare a ridurre la disuguaglianza tra Paesi;
- crescita limitata all’1..1,5% per i Paesi già sviluppati, secondo i più recenti studi sulla crescita di lungo periodo;
- necessità di ridurre le disuguaglianze interne a ciascun Paese. Per questo bisogna fissare:
- una distinzione tra Paesi ricchi e poveri, per permettere a questi ultimi di crescere più dei primi;
- un livello di reddito al di sotto del quale non ci sono interventi fiscali;
- un livello di reddito (più basso del precedente) al di sotto del quale scattano gli aiuti pubblici per un certo periodo, condizionati all’accettazione di proposte di lavoro congrue per distanza dall’abitazione e per guadagno mensile;
- una tassazione per gli alti redditi, per i Paesi con alto debito, in modo da riportare il debito a livelli accettabili.
Il PIL (prodotto interno lordo)
Il PIL (prodotto interno lordo) è da molto tempo preso come unico indicatore del benessere di un Paese. Esso è quanto, in un anno, un Paese produce in beni e servizi che passano dal mercato. Il PIL è molto influenzato da una visione ristretta del benessere, che si rifà all’idea dell’homo economicus, per cui i comportamenti volti a promuovere l’interesse economico individuale, grazie all’intervento della mano invisibile del mercato, farebbero anche l’interesse collettivo, misurabile, appunto, con un indicatore di carattere economico, nel presupposto – errato – che più si possiede, meglio si sta.
Il PIL ha però resistito a questi tentativi per il buon motivo che permette, con una sola cifra, di indicare l’andamento complessivo dell’economia di un Paese; ha cioè doti di sinteticità difficilmente imitabili.
A questa affermazione si può rispondere che sono altrettanto sintetici altri indicatori come l’aspettativa di vita, per il grado di salute, la percentuale di diplomati e laureati, per il grado di istruzione, le emissioni di CO2, per il grado di inquinamento. Per fare una sintesi che, oltre al PIL, comprenda questi altri tre indicatori, sarebbe sufficiente un modesto apporto statistico.
In Italia (ma anche, come vedremo, nei Paesi più sviluppati) la crescita è stata molto alta nei tre decenni dopo la seconda guerra mondiale: più dei 4% per trent’anni. Poi, a partire dal terzo decennio (’71-’80) di quello che è stato chiamato trentennio d’oro, è cominciata una discesa continua che ci ha portato, nel decennio 2000-2010 a un modestissimo 0,25% l’anno e negli anni successivi ancora peggio. Il dato non riguarda solo l’Italia. Nei vent’anni tra il 1995 e il 2014 la Germania è cresciuta del 28,7% (1,435% l’anno), la Francia del 20,8% (1,035% l’anno), la Spagna del 23,9% (1,195% l’anno), l’Inghilterra del 33,8% (1,69% l’anno). Tranne i paesi nordici e l’Irlanda, tutti gli altri Paesi europei sono sotto il 2% l’anno, ma più vicini all’1% che al 2%.
Il declino, che dura ormai da quasi 50 anni, è dovuto non tanto alla crisi, cominciata nel 2008, quanto a fattori strutturali, di cui parleremo, che hanno una portata molto più lunga.
Tenendo d’occhio gli studi di Piketty – che parla, nel lungo periodo, di una crescita annua intorno all’1,5% – possiamo affermare che i dati anomali sono quelli del trentennio post-bellico, non quelli di oggi. Ma noi siamo diventati grandi (almeno la generazione del baby-boom) in un periodo di crescita eccezionale e ci siamo convinti che a quei livelli prima o poi torneremo.
Due sono i fattori che hanno spinto la crescita a livelli molto alti nel dopoguerra: la ricostruzione post-bellica e l’esplosione dei consumi di massa di beni durevoli (automobile, elettrodomestici, ecc.).
I fattori che hanno influenzato negativamente la crescita italiana (anche rispetto agli altri Paesi ricchi) sono almeno due.
Il primo è la struttura produttiva, caratterizzata prevalentemente da produzioni abbastanza facilmente riproducibili e con un basso contenuto di ricerca e innovazione. Queste produzioni (elettrodomestici, tessile-abbigliamento, arredamento, edilizia) si spostano abbastanza facilmente ad est, dove il costo del lavoro, che ha un’incidenza notevole su questi prodotti, è più basso che da noi.
Il secondo fattore è il nanismo che caratterizza le nostre imprese: numerose unità locali con piccole dimensioni, che faticano a costruire quelle economie di scala, che sono sempre più necessarie per finanziare la ricerca e l’innovazione. Siamo invece deficitari di grandi imprese, che hanno più facilità a finanziare queste attività.
I BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) stanno facendo quello che abbiamo fatto noi nel dopoguerra. Stanno fabbricando prodotti ad alta intensità di lavoro, approfittando del basso costo di questo fattore di produzione. In questo modo saturano il mercato interno con prodotti che prima importavano dai Paesi ricchi, ed esportano a basso costo i loro prodotti (si pensi all’abbigliamento, per esempio). La salvezza dei Paesi ricchi sta nel concentrarsi su produzioni ad alto tasso di ricerca e innovazione: sempre più terziario e sempre meno manifattura, che è destinata, almeno in parte, a spostarsi verso i Paesi poveri. Il tutto è accelerato dalla globalizzazione, che ha reso più facile lo spostamento di produzioni verso sud-est.
Viviamo nella cosiddetta “società dei consumi”: quando questi ristagnano l’economia rallenta o addirittura si blocca. Un numero crescente di studiosi ha cominciato a mettere in discussione questo principio, non solo per i limiti ecologici, che abbiamo già evidenziato nella prima parte di questo scritto, ma anche per i limiti economici, sociali ed etici, che vengono sempre più alla luce, di questo modello di sviluppo. Ormai si è affermata una teoria che sostiene che la crescita del reddito è correlata positivamente con il benessere (inteso come felicità) fino a che serve a soddisfare i bisogni di base (alimentazione, vestiario, abitazione, trasporto) ma, soddisfatti questi, una sua ulteriore crescita è scollegata del benessere. Siamo arrivati a un punto che non si sa più cosa produrre, nelle società ricche come la nostra. Bisogna passare dalla logica della quantità, trainata ai consumi, a quella della qualità.
La decrescita felice e la sobrietà
Da un po’ di tempo assistiamo a uno strano atteggiamento: destra e sinistra indicano la “decrescita felice” come un male da evitare a tutti i costi, mentre apprezzano la parola “sobrietà”, senza però specificare che cosa significhi in concreto.
Penso che la sobrietà sia una strada da seguire, ma precisandone le caratteristiche. Non va seguita nei Paesi poveri e in via di sviluppo, per i quali è invece opportuna una ulteriore crescita. Non va seguita per quei milioni di poveri dei Paesi ricchi, per i quali è necessario un intervento pubblico che gli integri il reddito e li aiuti a trovar un lavoro, che gli dia un guadagno sufficiente a condurre una vita dignitosa.
Va invece seguita da chi, nei Paesi ricchi e in via di sviluppo, ha già di che vivere dignitosamente, agendo sulle aspettative: bisogna educare le classi medie e alte a non aspettarsi grandi miglioramenti e ad accontentarsi di quello che hanno già. Questo è un lavoro immane, perché si tratta di intervenire sulle aspettative della gente, cioè su uno strato culturale molto profondo e difficile da cambiare. Ma ci sono già dei segnali, soprattutto nei giovani, che questo cambiamento è già in atto. La sensibilità ecologica è in aumento; si chiede al lavoro stabilità, ma anche la possibilità di realizzarsi come persone, che spesso viene prima dell’alto guadagno nelle aspettative delle nuove generazioni; la ricerca del “lavoro ideale” si è fatta più complessa, per cui ciò che la generazione dei padri definisce “precarietà” è visto dai figli anche come sperimentazione di lavori diversi, alla ricerca di quello che risponde meglio alle proprie aspettative.
La sobrietà va presa molto sul serio, e va attuata come politica redistributiva, che toglie ai ricchi per dare ai poveri.
L’espressione “decrescita felice” è invece quantomeno ambigua. Nessuno può dimostrare che una decrescita del PIL sia preferibile a una sua crescita. Cominciamo quindi a dire che va tolto l’aggettivo “felice” da questa espressione.
Quanto alla decrescita questa è nei fatti: si è realizzata, nonostante tutte le politiche tese a scongiurarla. I dati sono lì a dimostrarlo: in Italia siamo passati dal +5,4% del tasso di crescita media annua dei decenni ’50 e ’60 allo 0,25% degli anni 2000-2010, con un calo costante nei vari decenni. E nel resto del mondo sviluppato e industrializzato l’andamento è analogo, anche se con cifre un po’ superiori, come detto in precedenza. Non si tratta quindi di un problema passeggero, da curarsi migliorando l’offerta, ma di una caratteristica strutturale, legata alla domanda mondiale di beni e servizi e alla divisione internazionale del lavoro.
Stiamo vivendo da 50 anni la decrescita. Passare da più del 5% annuo di crescita del PIL a poco più dello 0% non è forse una decrescita, intesa come minor crescita? E numerosi studi (a partire da quello di Piketty) mostrano che, nel lungo periodo, il tasso di crescita che possiamo attenderci, è dell’1..2% l’anno. Cominciamo a parlare di minor crescita e ad impostare su previsioni più realistiche le politiche economiche. In questo “dire la verità” i vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese sono ugualmente deficitari: prima il centro-destra, poi il centro-sinistra, e poi il Governo giallo-verde, hanno basato le loro politiche economiche su previsioni di rilancio della crescita irrealistiche, deludendo in poco tempo i rispettivi elettori. Il problema della nostra economia non è tanto il rapporto deficit/PIL, ma il rapporto debito/PIL, che supera il 130%. Per coprire questo debito, lo Stato deve prendere a prestito molto soldi e su di essi pagare gli interessi. Ogni anno nel bilancio pubblico italiano paghiamo circa 70 miliardi di interessi che, se il debito pubblico fosse la metà, sarebbero 35 miliardi, liberandone altrettanti per investimenti pubblici e servizi sociali, di cui il nostro Paese ha un gran bisogno, e portando il rapporto debito/PIL molto vicino a quel 60% previsto dagli accordi di Maastricht, anche da noi sottoscritti per entrare nell’euro.
Un secondo motivo per pagare il debito pubblico è la preoccupazione per le generazioni venture, a partire dai nostri figli. Il pagamento del debito è un obbligo che, prima o poi, bisogna onorare. Se non lo facciamo noi, toccherà alle generazioni successive, che hanno già da affrontare i problemi di minor sicurezza del posto di lavoro e di minori prestazioni del welfare pubblico.
Le vie d’uscita
Abbiamo, almeno teoricamente, tre strade da percorrere per affrontare il principale problema dell’economia italiana: il rapporto debito/PIL.
La prima strada è cambiare la formula di questo numero: al denominatore, anziché prendere il PIL, prendere un indicatore composto da PIL + aspettative di vita + grado di istruzione + emissioni di CO2 e al numeratore aggiungere al debito pubblico quello privato. Questo cambiamento di formula porterebbe benefici all’Italia per lo meno per l’aspettativa di vita (siamo tra i più longevi del mondo) e per il debito privato (che, contrariamente a quello pubblico in Italia è molto basso). Però lascerebbe inalterato uno dei problemi dell’alto debito: il pagamento di alti interessi passivi da parte dello Stato, che indeboliscono la sua capacità di spesa in investimenti e questioni sociali. Un cambio di ottica quindi, di per sé auspicabile, ma che non risolverebbe il principale problema della nostra economia.
La seconda strada prende le mosse dalla formula illustrata sopra, che mette in relazione deficit e debito. Se il debito diminuisce quando la somma tra crescita reale e inflazione supera il deficit annuo, allora bisogna contenere quest’ultimo anche al di sotto del 3% previsto da Maastricht, e spingere crescita e inflazione sopra il deficit annuo. Per questo da un po’ di tempo in qua gli esperti dicono che l’inflazione è troppo bassa: un suo lievitare intorno al 2% + una crescita dell’1..1,5% porterebbe questi due indicatori a superare il deficit, che in Italia è fissato per il 2019, dopo molte polemiche al 2,4%.
Questa strada porterà risultati nel lungo periodo, ammesso che li porti. Infatti sia l’inflazione che il tasso di crescita dipendono in buona parte da fattori internazionali che nessuno Stato controlla da solo completamente. Comunque guadagnando in media un punto all’anno ci vorranno 60 anni per raggiungere, o quasi, il rapporto debito/PIL previsto da Maastricht. Inoltre in questi 60 anni nessuno può prevedere che non ci siano altre crisi economiche, che abbassano sia la crescita che l’inflazione. È quindi una strada percorribile, ma piena di incognite.
La terza strada prevede invece di affrontare il problema direttamente e smentisce uno dei mantra principali agitato da tutte le forze politiche: l’abbassamento delle tasse per tutti. Uno studio, fatto da Rocco Artifoni, Antonio De Lellis e Francesco Gesualdi mostra che la strada dell’abbassamento delle tasse è stata abbondantemente percorsa dall’Italia, in particolare per gli alti redditi, che sono passati da una tassazione del 72% sopra i 258.228 euro nel 1974 al 43% oltre i 75.000 euro nel 2007, con minori incassi, da parte dello Stato, per circa 150 miliardi di euro. La terza proposta prevede una tassa patrimoniale per gli alti patrimoni e una vendita di beni pubblici per abbassare il debito pubblico di 400 miliardi e portare il suo rapporto col PIL a circa il 108%, risparmiando quasi 12 miliardi di interessi sul debito, che potranno essere utilizzati per investimenti pubblici, spese sociali o riduzione del debito stesso.
Questa proposta prevede che tutti i risparmi siano utilizzati per scopi diversi dall’aumento del reddito pro-capite, ad eccezione di una fascia molto bassa, che beneficerebbe invece di interventi pubblici a suo favore. Prevede quindi un ridimensionamento delle aspettative da uno stato di continuo miglioramento a uno stato stazionario per i redditi medi e a un decremento per i redditi alti. È quindi socialmente esplosiva, in quanto postula un cambio di mentalità difficile a realizzarsi in poco tempo.
Le tre strade indicate non sono necessariamente alternative tra di loro: si può anzi pensare a una loro complementarietà.
Primo: bisogna smettere di fare promesse basate su una ripresa della crescita. Le serie storiche di dati riferiti al lungo periodo dimostrano che la crescita intorno al 5% annuo, realizzata nel trentennio d’oro (1950-1980) sono una eccezione rispetto all’ 1..1,5% realizzata nel lungo periodo.
Dobbiamo perciò aspettarci nei prossimi decenni crescite (se tutto andrà bene) attorno a questa cifra. Le nostre aspettative di un miglioramento quantitativo alto e continuo vanno perciò riviste al ribasso. Sono i tassi di crescita del trentennio d’oro ad essere l’eccezione positiva rispetto alla regola. Da ciò deriva che, vista anche l’inflazione inferiore al 2%, sarà molto difficile pagare il debito accumulato da alcuni Paesi (tra cui l’Italia) seguendo la strada della diminuzione del debito molto graduale e che comunque comporterebbe un numero di anni molto elevato (circa 60 o 70).
Secondo: l’obiettivo di ridurre le tasse a tutti va rivisto. Bisogna, con la politica fiscale, far pagare più tasse ai ricchi per avere le risorse necessarie a ridurre il debito e ad andare in soccorso ai poveri. Una redistribuzione del reddito è necessaria per combattere ciò che il mercato senza un intervento pubblico correttivo, sta realizzando nei Paesi sviluppati: un numero molto ristretto di ricchi sempre più ricchi, un ceto medio in difficoltà e preso dalla paura di perdere quello che ha, le classi povere sempre più povere e con gravi problemi ad arrivare alla fine del mese.
Terzo: è un dovere morale, oltre che economico, pagare il debito pubblico accumulato. Chi dice che, finché troviamo finanziatori, il debito pubblico può essere gonfiato all’infinito, sottovaluta il rischio che i finanziatori spariscano e non tiene conto della certezza che un alto debito comporta interessi passivi altrettanto alti, che sottraggono risorse al bilancio dello Stato. Lascia inoltre alle giovani generazioni l’onere di pagare il debito.