È mia convinzione che la vera insidia, per l’Unione Europea, non sia – dopo la tormentata Brexit – un’Italexit improbabile, benché minacciata, ma il mantenimento dello status quo, efficacemente descritto con l’analogia tra UE e un condominio: un’unione divenuta molto stretta, tra condomini (gli Stati membri) che non si amano e che non investono sul consolidamento delle strutture comuni. L’UE sembra oscillare tra questa realtà di condominio, che la rende ostaggio di egoismi nazionali, e una prospettiva di integrazione un po’ grigia, irrigidita da parametri vincolanti, automatismi, aggiustamenti, «compiti a casa» e povera di slancio progettuale e solidale e di un respiro popolare. Ancora all’avvio della pandemia, l’UE è parsa fredda e incapace di reazione, paralizzata dal perverso gioco dei «sovranisti», che in patria criticano l’UE perché inerte e in sede europea ne impediscono, con il voto contrario, gli slanci riformatori.
Qualcosa finalmente sembra stia ora cambiando, su impulso della BCE e della nuova Commissione europea. La pandemia è, paradossalmente, uno shock ideale per avviare trasformazioni che mettano la sordina agli egoismi nazionali: è simmetrico – perché colpisce tutti gli Stati – ed è esogeno – perché non dipende dalle «colpe» degli Stati stessi. La stucchevole ricetta dei compiti a casa è dunque inapplicabile. Qualche novità nei più recenti provvedimenti si intravede: è stato sospeso il patto di stabilità, che bloccava la capacità di intervento di Stati indebitati; sono state allentate le regole sulle limitazioni agli aiuti di Stato alle imprese, che impedivano il soccorso statale alle imprese in crisi di liquidità; è stata attenuata (non sparita) la condizionalità del famigerato MES, ecc…Insomma, la cifra riassuntiva dell’intervento sembra la provvisorietà: si introducono deroghe, sospensioni, allentamenti di una rigidità normativa che però, al rinchiudersi di questa finestra di flessibilità, al 31 dicembre 2020, potrebbe tornare a dispiegarsi in tutto il suo freddo potenziale.
La temporaneità avvolge di precarietà questa «primavera» europea: siamo all’alba di una nuova (e più calda) stagione dell’integrazione o si preannuncia un innaturale ritorno all’inverno? È ben vero che nella storia della sua integrazione, l’UE ha progredito proprio a piccoli passi, assommando graduali interdipendenze, secondo una traiettoria di federalismo «sotto traccia», ma, al punto a cui siamo giunti, serve una svolta duratura, non una semplice parentesi. Lo strumento del Recovery Fund, recentemente lanciato dalla Commissione e denominato «Next Generation EU», lascia intravedere una direzione riformatrice più ambiziosa: un progetto di rafforzamento (temporaneo?) del bilancio europeo e di una capacità fiscale comune con cui l’UE possa stimolare investimenti e ripresa. Se questa proposta non subirà stravolgimenti, questo rafforzamento sarà infatti coperto principalmente da nuove entrate europee (come una plastic tax). Comincia così a trovare attuazione un principio da tempo invocato: la costruzione di una «capacità fiscale» comune tra i Paesi UE, cioè di un bilancio europeo finanziato con risorse proprie e non solo con contributi nazionali. Perché queste misure non siano un pannicello caldo per sopravvivere alla crisi di legittimazione dell’UE, occorre che questa svolta sia confermata e rinvigorita nel tempo e, perché questo avvenga, che sia sostenuta e anzi rivendicata politicamente dalle forze rappresentate nel Parlamento europeo e dai cittadini europei. Occorre cioè che il «federalismo delle regole» sia orientato da un respiro politico popolare che ridia alla progettualità europea l’anima di un’avventura e rinfreschi le pareti un po’ ammuffite del condominio comunitario.