In tempo di emergenza può sembrare inopportuno gettare il pensiero oltre la siepe per valutare le conseguenze di lungo periodo delle misure adottate d’urgenza. Ma anche in caso di incendio si mantiene il pensiero costantemente sul dopo in modo da evitare scelte che amplificano i danni o che pregiudicano la rinascita futura. Ad esempio nessuno si sognerebbe di spengere gli incendi boschivi, neppure i più estesi, con acqua di mare.
La necessità di contenere la diffusione del coronavirus ci ha costretto a chiudere tutto ciò che non è essenziale, ma centinaia di migliaia di famiglie e di imprese hanno subito contraccolpi pesanti. Per tamponare la situazione il governo è giustamente intervenuto con somme straordinarie. Si è cominciato con sette miliardi di euro, poi portati a venticinque, ma tutti concordano che i danni del lockdown saranno così massicci da dover raddoppiare se non quadruplicare le cifre da mettere in campo. Somme importanti che incidono pesantemente sui bilanci di qualsiasi governo compresi i più forti.
Perciò è stata avanzata la richiesta di unire le forze a livello di Unione Europea in modo da affrontare l’emergenza e i suoi postumi non singolarmente, ma in forma collettiva. Ma i paesi più forti non hanno dato segnali di voler accogliere tale proposta. Nella convinzione di potercela fare da soli, guardano con sospetto alle soluzioni condivise nel timore di doversi fare carico delle difficoltà dei paesi più deboli. E subito si sono levate voci di sdegno, di accuse di egoismo nei loro confronti. Accuse fondate, ma che non debbono farci dimenticare la nostra parte di responsabilità che si chiama blocco ideologico così radicato da non permetterci neanche di guardare in faccia la realtà. Il fatto è che pur riconoscendo la necessità di trasformare i governi in potenti iniettori di liquidità, tutti pensano che l’unico modo per farlo debba essere quello di sobbarcarsi di debiti. Ma i debiti, si sa, hanno sempre due facce: quello del sollievo immediato per l’ottenimento delle somme che momentaneamente ci tirano fuori dai guai e quello del sacrificio futuro per ripagare il capitale appesantito dagli interessi. Ed è proprio per paura che i paesi più deboli non riescano a rispettare i propri impegni che i più forti non vogliono indebitarsi insieme a loro. Atteggiamento riprovevole che però non si risolve lanciando anatemi, ma cercando strade più tranquillizzanti.
La domanda che dobbiamo porci è se esistono strade diverse dall’indebitamento per permettere ai governi di far fronte ai fabbisogni eccezionali. Nel caso dell’Italia, sicuramente abbiamo ancora ampi spazi di manovra in ambito fiscale recuperando non solo l’evasione, che ammonta a oltre 100 miliardi di euro all’anno, ma anche l’equità fiscale soprattutto in ambito patrimoniale. Due temi che torneranno di grande attualità ad emergenza terminata quando dovremo stabilire come gestire gli enormi bisogni collettivi attraverso le normali vie fiscali. Ma ciò che bisogna aver ben chiaro è che a segnare le nostre sorti in tempi di eccezionale fabbisogno finanziario è la possibilità o meno di esercitare il potere di emissione di moneta. Nei tempi antichi il problema non si poneva: il potere di battere moneta apparteneva al sovrano come conferma la celebre frase di Cristo che vedendo l’effige dell’imperatore sul metallo disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio, ciò che è di Dio”.
Pur fra alterne vicende il potere di emissione dei sovrani durò finché il mezzo principale di pagamento era rappresentato dalle monete di metallo. Ma quando cominciò ad affermarsi la moneta cartacea, il potere di emissione venne monopolizzato dalle banche private. Una delle prime ad emettere banconote fu una banca scozzese nel 1704, ma ben presto proliferarono banche di emissione in tutta Europa. Al tempo dell’Unità d’Italia, nella nostra penisola se ne contavano nove e bisognò attendere il 1926 per vedere tale attività concentrata in un unico soggetto, la Banca d’Italia, sorta già un trentennio prima dalla fusione delle principali banche di emissione. Ma benché soggetta a vincoli di legge, la Banca d’Italia rimaneva un’entità privata che oltre ad avere capacità di decisione propria, manteneva con lo stato lo stesso rapporto creditizio con aveva con qualsiasi altro cliente. Le cose cambiarono nel 1936 con la nazionalizzazione della Banca d’Italia che divenne banca di stato agli ordini del governo. Tuttavia, da un punto di vista formale e culturale l’impostazione rimaneva quella di sempre: permaneva la convinzione che solo le banche hanno diritto di emissione mentre i soldi concessi ai governi debbano continuare ad essere registrati come crediti.
In effetti l’unico modo che permette allo stato di garantirsi denaro senza pronunciare la parola debito è quella di essere lui stesso ad emettere i biglietti di pagamento che a quel punto non saranno più chiamati banconote, bensì statonote. Esattamente come fece Abram Lincoln nel 1862 che non volendosi indebitare con le banche per finanziare la guerra contro i secessionisti, fece stampare dal governo federale il famoso biglietto verde che poi rimase il prototipo del dollaro. Scelta coraggiosa in un tempo in cui si credeva che i biglietti in circolazione dovessero avere il corrispettivo in oro. Ma oggi sappiamo che la credibilità del circolante poggia su elementi che vanno ben al di là della convertibilità in oro. È piuttosto la solidità economica dei paesi e soprattutto la disponibilità di tutti ad accettarle come mezzo di pagamento a dare stabilità alle monete. In altre parole è la fiducia il vero elemento di valore del denaro, un bene comune che non si può privatizzare per il guadagno di pochi, ma che va utilizzato per il bene di tutti.
Per questo dobbiamo avere il coraggio di rimettere in discussione le pratiche economiche basate su convinzioni che oltre ad essere anacronistiche sono state smentite dai fatti. Ad esempio, dovremmo cominciare ad ascoltare di più l’MMT, la Modern Monetary Theory, che rivendica la possibilità per i governi di ottenere finanziamenti diretti e a fondo perduto dalle banche centrali ogni volta che si rende necessario finanziare spese eccezionali utili a fronteggiare problematiche eccezionali come disoccupazione, crisi economiche, calamità naturali. Proprio come sta succedendo oggi, stando bene attenti a non lasciare che l’emergenza sanitaria oscuri un’altra emergenza altrettanto grave. Stiamo parlando dell’emergenza climatica che necessita anch’essa di ingenti investimenti non solo per passare dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, ma anche per riformare il sistema dei trasporti e per convertire l’assetto produttivo dalla produzione lineare a quella circolare. I costi della crisi sanitaria sommati ai costi dell’emergenza climatica ed ambientale potrebbero costringere i governi europei a dover sborsare migliaia di miliardi di euro da qui ai prossimi dieci anni. Ma se continuiamo a pensare che l’unica via di finanziamento debba essere l’indebitamento sarà difficile riuscire a farcela. Il rischio è che di fronte all’emergenza sociale rinunciamo a tamponare quella ambientale aggravando però un problema che nel giro di poco tempo potrebbe presentarci un conto economico e sociale ancor più grave. Ed allora è meglio cominciare a chiederci come possiamo risolvere il problema della sostenibilità finanziaria oggi per garantirci la sostenibilità ambientale e sociale domani.