Nei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale il nostro debito pubblico ha registrato variazioni di scarsa entità mantenendosi costantemente al di sotto del 100% del PIL. Tale tendenza è sostanzialmente proseguita, sia pure con differenti altalenanze, sino alla fine degli anni Settanta.
Una forte impennata del debito si è verificata negli anni tra il 1982 e il 1990, quando i governi che si sono succeduti hanno continuato a mantenere saldi primari negativi fino ad oltre il 15%, sorvolando tutti, chi più chi meno, sulla disciplina di bilancio. Anno dopo anno, con un’inflazione superiore al 10%, per trovare acquirenti di BOT e BTP il tasso medio dei nostri titoli di Stato si è sempre mantenuto in doppia cifra.
Così il debito, che nel 1980 era pari al 60% del PIL, dopo dieci anni ha superato la soglia di guardia del 100%. Per questa ragione agli inizi degli anni Novanta la nostra ammissione nell’Unione europea si presentava assai improbabile, visto che tra i requisiti per l’accesso era stato fissato un rapporto debito PIL del 60%.
Questa condizione fu superata grazie all’autorevolezza di Guido Carli che, in qualità di ministro del Tesoro, prospettò che nel trattato di Maastricht fosse inserita anche la possibilità di aggiungere al vincolo del 60% del PIL quello del 3% del deficit, nel quale rientravamo e che ci saremmo impegnati a rispettare.
Quei vincoli di bilancio furono fissati con l’obiettivo di risanare nel medio periodo le finanze pubbliche e far ripartire l’economia dei Paesi aderenti su basi comuni e finanziariamente sostenibili. In Italia, tuttavia, il susseguirsi di governi deboli, litigiosi ed assai poco lungimiranti non ha reso possibile l’adozione di politiche incisive di contenimento del debito.
Che ciò sarebbe stato possibile lo ha dimostrato il Belgio, che nel 1995 ha creato un «fondo speciale» per razionalizzare tutte le spese sociali e decimare sprechi e doppioni, riuscendo nel giro di soli quattordici anni a fare scendere il debito dal 160% all’80% del PIL.
Nel nostro caso, l’incapacità di attuare interventi incisivi di contenimento della spesa corrente ha fatto sì che il rapporto debito/PIL salisse progressivamente fino all’attuale 132,8%. Ecco perché oggi siamo obbligati a sostenere una spesa per interessi – fortunatamente ancora molto bassi – che supera i 50 miliardi di euro annui. Ciò rende assai difficile ottenere reali avanzi di bilancio e contribuisce all’aumento del debito stesso.
D’altra parte, non siamo stati in grado nemmeno di realizzare politiche di investimenti pubblici che avrebbero stimolato una complessiva crescita economica del Paese e il conseguente aumento del PIL, determinando un abbassamento del rapporto con il debito. Tale condizione ci sottopone costantemente al ricatto della speculazione finanziaria internazionale, con la ricorrente minaccia di aumento dello «spread» tra i nostri «bond» e quelli tedeschi.
Negli ultimi mesi, peraltro, abbiamo assistito ad una assurda polemica sulla necessità di apportare sostanziali variazioni al Fondo salva Stati (MES), ritenuto, così come programmato, pericoloso per il nostro Paese, dando l’impressione che fosse ineludibile un suo utilizzo.
In un Paese normale la discussione sul MES sarebbe stata utilizzata per introdurre un dibattito in Parlamento sulla necessità di contenere il debito, vera fonte di ogni problema, intervenendo, ad esempio, sull’evasione fiscale – che attualmente supera i 130 miliardi – ed attuando una razionalizzazione della spesa pubblica che comprende spese inutili per oltre 60 miliardi, come già dichiarato a suo tempo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli. Ciò non è avvenuto, anzi, si è accresciuta la spesa in disavanzo introducendo il Reddito di cittadinanza e Quota cento.
Non sono pochi poi, come noto, gli esponenti politici che contestano le regole europee e si dimostrano nostalgici degli anni ’80, proponendo di accrescere ulteriormente il deficit anche oltre i limiti del 3%.
Ancora una volta, insomma, la politica continua ad eludere le proprie improcrastinabili responsabilità, preferendo la solita retorica dialettica «acchiappavoti» ad una guida sagace, spedita e responsabile del Paese.
(tratto da L’Eco di Bergamo del 7 gennaio 2020)