C’è un mantra che sta rovinando l’Italia da più di vent’anni, in un Paese ipocrita da sempre, e da sempre diviso fiscalmente tra “furbi” e “fessi”. Con la politica anche in queste ore dilaniata (se di governo) e mobilitata (quando di opposizione) a carezzare i “furbi”, e mai a porsi davvero il problema dei “fessi”.
E questo mantra è: «Meno tasse». Che nessuno è mai in grado di abbassare, perché per farlo bisognerebbe farle pagare ai cosiddetti “furbi”, cioè i fiscalmente disonesti, e nessuno lo vuol fare, perché il calcolo è sempre la meschinità della propria partita IVA elettorale: “Quanto mi costa in termini di consenso?”. E così le tasse continuano a pagarle, come devono, i “fessi” cioè soprattutto (anche se non solo) i cittadini a reddito fisso e i pensionati.
Molto pochi – e tra questi il giornale che accoglie queste note – hanno il coraggio di dire che quel «meno tasse», su chi effettivamente le paga, e che davvero meriterebbe di pagarne meno, se venisse attuata stante l’attuale evasione, vorrebbe dire meno scuola, meno università e ricerca, meno insegnanti e docenti, cioè, quelli che insegnano ai nostri figli; meno sanità pubblica, quella che cura tutti anche i più poveri; meno forze dell’ordine e meno vigili del fuoco (quelli che ci lasciano la pelle per noi, quando va male); meno trasporti pubblici (quelli su cui in più di mezz’Italia imprechiamo ormai la mattina quando andiamo a lavoro); meno welfare per le famiglie, i deboli e i più deboli (che non sappiamo a chi lasciare).
Nessuno o quasi, poi, ha il coraggio di dire che siamo largamente una società di ipocriti, che ruba il presente e il futuro a se stessa e ai propri figli. E che vilmente, con disonestà intellettuale negli argomenti del dibattito pubblico quando si cerca di argomentare la necessità di far pagare le tasse a quella o questa categoria di evasori ed elusori, mette in campo, legati sulle torrette dei carri armati della retorica, l’«evasione di necessità» del piccolo commerciante della Barbagia o del giovane che avvia una partita Iva, per difendere le vetrine di lusso e le partite Iva che frazionano la loro attività per ritrovarsi al di sotto della soglia utile della flat tax, e interi comparti che statisticamente le tasse le evadono o le eludono in misura che non ha pari nel mondo civilizzato. E ogni volta che si parla di qualche misura che contrasti in modo più incisivo l’evasione, tira fuori lo «Stato di polizia».
Argomento patetico in un Paese che non riesce neanche a pagare come meritano i poliziotti e i carabinieri per l’ordinaria amministrazione della sicurezza pubblica. Studi, che nessuno può smentire, dicono ad esempio che l’IRPEF pesa sempre di più su lavoratori e pensionati, fino all’83%, mentre negli ultimi 15 anni è invece calato il contributo di autonomi, imprenditori e beneficiari di redditi da partecipazione.
Con una giungla di detrazioni e deduzioni e numerose situazioni paradossali che colpiscono i contribuenti a ridosso delle soglie di esenzione, a partire dai circa 5 milioni di incapienti che non riescono a godere delle agevolazioni. È l’ingiustizia messa a norma, difesa in una comunicazione pubblica e politica tutta impegnata a far capire al Paese fiscalmente ‘disonesto’ – e in gran parte non per necessità, ma per vocazione – che nulla cambierà e che ‘chi sa’ può stare tranquillo.
Il messaggio «meno tasse» funziona erga omnes, perché dice al Paese dei ‘fessi’ che le pagano ‘avete ragione, non se ne può più’, e al Paese dei furbi ‘state tranquilli, non ve le farà pagare nessuno’. In un Paese diviso, dove in modo sordo moltissimi ‘rubano’ agli altri, fa sentire a ognuno quel che vuol sentire. E anche la distinzione ‘grandi’ e ‘piccoli’ evasori, su cui si può fare ogni ragionevole valutazione, vale fino a un certo punto. Perché chi è il ‘grande’ evasore? La multinazionale, che è piuttosto un grande elusore che va colpito come misure idonee? Un signore che evada 50mila euro annui, che non è certo l’evasione o l’elusione milionaria, che lo faccia per trent’anni avrà goduto in quel periodo di un reddito aggiuntivo di un milione e mezzo esentasse: i suoi figli avranno scuole migliori, sanità migliore, vita migliore e magari tre o quattro appartamenti in eredità quando sarà il momento, più dei figli dei tanti che questa franchigia fiscale fai-da-te non l’hanno goduta.
Ma come credete che si sia creata la ricchezza privata degli italiani mentre cresceva il loro debito pubblico? Con la loro sola propensione al risparmio? O in quel risparmio (e nel debito pubblico) non è confluita la franchigia fiscale di massa garantita spudoratamente a milioni di soggetti fiscali? A mio parere una buona misura per recuperare parte di questa franchigia potrebbe essere, nella successione ereditaria, la tassazione dei beni mobili e immobili con aliquote significative in analogia al rientro dei capitali all’estero, sulla parte incoerente e ingiustificata con i redditi dichiarati nella storia fiscale del nucleo familiare.
Insomma se un contribuente ha dichiarato nella sua vita fiscale due milioni di reddito e lascia beni ingiustificati dalla capacità di risparmio di quella storia fiscale qualche problema ci sarà o no? Una norma del genere basterebbe da sola a far dichiarare redditi più credibili, come pure una norma che impegnasse a segnalare ogni acquisto rilevante all’Agenzia delle entrate, perché valuti se è compatibile con la storia fiscale degli ultimi dieci o vent’anni dell’acquirente. Stato di polizia? Ma no! «Faciteme ’o piacere», direbbe il mio Totò. Stato di pulizia, piuttosto. Perciò ben venga la determinazione del governo Conte a impegnarsi contro l’evasione fiscale. L’Italia sarà un Paese che cambia solo se cambierà su questo terreno. Il resto sono chiacchiere.
Eugenio Mazzarella
(tratto dal sito avvenire.it – 22 ottobre 2019)