Relazione di Cleto Iafrate.
All’importante evento hanno partecipato varie associazioni e diverse personalità del mondo associativo, culturale, politico e istituzionale. Tra i relatori Cleto Iafrate, direttore del Laboratorio delle idee di Ficiesse.
Di seguito il testo della sua relazione.
IL TERZO PUNTO PROGRAMMATICO DELL’ARDeP, un atto di giustizia fiscale riparativa per ridurre il debito, ridare fiducia ai contribuenti onesti e recuperare equità e coesione sociale. Segue: L’ANAGRAFE DEI CONTI E DEI RAPPORTI FINANZIARI, uno strumento tanto potente quanto ignorato e sottoutilizzato.
Saluto il sig. sindaco di Praia a Mare e tutti i presenti.
Mi chiamo Cleto Iafrate, sono un socio dell’ARDeP, che, come noto, è un’associazione civica composta da cittadini che hanno in comune la sensibilità al problema del debito, cercano di segnalarne il pericolo e di offrire il loro contributo di idee per favorirne la riduzione.
L’associazione è presieduta dal prof. Pasquale Moliterni, dell’Università degli Studi di Roma “Foro Italico”. L’ideatore e fondatore dell’ARDeP è il Prof. emerito Luciano Corradini, il quale nel settembre nero del 1992, quando lo Stato rischiava seriamente la bancarotta, decise di decurtarsi parte della retribuzione a vantaggio del debito pubblico. E per un anno e mezzo versò all’erario il 10% del suo stipendio di docente universitario.
Lo scopo di quella iniziativa, spiegato poi in una lettera al presidente Amato, era quello di denunciare le conseguenze nefaste dell’evasione fiscale e richiamare i politici a una gestione più attenta e responsabile del bilancio statale.
Sono qui oggi per presentare una proposta per ridurre il debito pubblico che abbiamo elaborato in seno all’ARDeP. Allo scopo, farò due brevissime premesse utili per introdurla: la prima inerente al problema del debito, l’altra al fenomeno dell’evasione.
1) Nell’ultimo ventennio il debito italiano è più che raddoppiato, lo scorso mese di luglio ha raggiunto quota 2.300 miliardi. Siamo il paese europeo che spende la cifra più alta in assoluto per interessi sul debito, nel 2016 il debito è costato ben 66,5 miliardi di euro. Germania e Francia ne spendono rispettivamente 43,3 e 41,9. Questo significa che Germania e Francia hanno ogni anno oltre 20 miliardi in più rispetto a noi da spendere in altro modo.
Sempre nel corso dell’ultimo ventennio anche la ricchezza delle famiglie italiane è cresciuta progressivamente, tanto da superare a fine 2016 il valore di 10.000 miliardi di euro (oltre quattro volte quello del debito), di cui circa 6.000 in immobili (abitazioni, terreni) e 4.000 in attività finanziarie (conti, depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività (mutui, prestiti personali).
Semplificando i dati e ragionando per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni italiano residente – cioè, ognuno di noi – avesse un debito di circa 37 mila euro e contemporaneamente possedesse un patrimonio di circa 165 mila euro (composto per il 60% da immobili e per il 40% da contanti). Questa massa di ricchezza, ovviamente, non è equamente distribuita, pare che il 50% sia finito nelle mani del 10% delle famiglie.
2) Sull’evasione fiscale non ci sono dati certi, l’unica certezza è che in Italia da decenni l’evasione viaggia a 12 cifre. In base alle stime del rapporto 2016 dell’Istituto di Ricerca Eurispes, l’economia sommersa in Italia vale il 18% del PIL; cioè ogni anno sfuggono a tassazione circa 270 miliardi. Se venissero tassati, frutterebbero alle casse dell’erario tra i 110 e 160 miliardi di imposte.
Ragionando anche qui per medie aritmetiche, possiamo affermare che è come se ogni anno ciascuna famiglia italiana occultasse al fisco circa 11 mila euro di reddito (le famiglie sono 24,5 milioni). Le famiglie, ovviamente, non evadono tutte e non tutte allo stesso modo. Si stima che per alcune categorie di contribuenti l’evasione sia pari addirittura all’80% del reddito totale prodotto.
In realtà, proprio il mancato incasso di questi denari ha comportato l’arricchimento di alcune famiglie, a svantaggio di tutte le altre, che da decenni subiscono una pressione fiscale veramente eccessiva.
Stando così le cose, se per ridurre il debito pubblico pensassimo di varare un’imposta patrimoniale senza un preventivo accertamento circa la reale provenienza dei patrimoni, non faremmo altro che aggiungere ingiustizia ad iniquità.
Risulterebbe, infatti, inaccettabile per la maggior parte dei contribuenti una patrimoniale che dovesse prevedere la medesima aliquota per un grande patrimonio accumulato grazie ad artifizi evasivi ed elusivi e per un patrimonio di pari importo derivante da redditi regolarmente denunciati al fisco e frutto di decenni di onesto risparmio. Ciò in quanto, evidentemente, alcuni patrimoni sono netti – nel senso che sono al netto delle imposte versate – altri patrimoni, invece, sono lordi, cioè sono al lordo delle imposte non versate e autoriciclate. E metterli tutti sullo stesso piano impositivo violerebbe un principio fondamentale del nostro ordinamento, quello della progressività in ragione della capacità contributiva, di cui all’articolo 53 della Costituzione.
Se la parola “equità fiscale” ha un senso, occorre procedere con un “atto di giustizia ripartiva”: bisogna anzitutto individuare e tassare i patrimoni, cosiddetti, “lordi”, cioè di provenienza illecita.
Come procedere?
IL TERZO PUNTO PROGRAMMATICO DELL’ARDeP
La proposta – denominata APC, che sta per Aliquota Personale Congrua– mira a stabilire per ciascun contribuente una ben calibrata aliquota d’imposta mettendo a confronto il patrimonio detenuto dal nucleo familiare con i redditi dichiarati al fisco nel più lungo arco di tempo consentito dal sistema informativo dell’anagrafe tributaria (l’intera vita lavorativa o comunque gli ultimi 15 – 20 anni).
Ponendo in relazione il reddito medio dichiarato con il patrimonio mobiliare e immobiliare posseduto, ovviamente tenendo conto delle successioni ereditarie, ben si potrebbe addivenire ad una percentuale di congruità tra ciò che si è dichiarato al fisco, e ciò che effettivamente si possiede. Con questo sistema verrebbero alla luce i patrimoni intestati a prestanome e quelli provenienti dall’autoriclaggio dell’evasione e dalle attività illecite.
Si tratta quindi di un’imposta straordinaria sui patrimoni incongrui da destinare alla riduzione del debito pubblico. In questo modo ciascun cittadino contribuirebbe alla riduzione del debito in modo molto diverso in base alla sua fedeltà fiscale. L’aliquota personale con cui tassare i patrimoni, infatti, non dipenderebbe solamente dall’ammontare del patrimonio, ma anche dal reddito dichiarato nel lungo periodo considerato.
I contribuenti onesti risulteranno “congrui” a questa verifica e saranno perciò esentati da ulteriori imposizioni fiscali. Gli altri, invece, avranno un “tasso di incongruità” che sarà più elevato tanto più disporranno di patrimoni “ingiustificati”.
Lo stesso discorso andrebbe esteso anche all’imposta di successione e donazione. Sarebbe opportuno prevedere un criterio di calcolo dell’imposta basato sul medesimo principio.
In altre parole, l’imposta dovrebbe dipendere dalla congruità dell’asse ereditario al reddito prodotto e dichiarato in vita dal de cuius.
Noi dell’ARDeP riteniamo che dopo decenni di evasione scandalosamente elevata questa proposta potrebbe rivelarsi un efficace strumento, certamente non l’unico, per ridurre il debito pubblico, ma soprattutto utile per ridare fiducia ai contribuenti onesti e per recuperare equità, solidarietà e coesione sociale, che negli ultimi tempi pare siano seriamente compromesse.
L’ANAGRAFE DEI CONTI E DEI RAPPORTI FINANZIARI
In passato una tale proposta era di difficile realizzazione in carenza di una idonea banca dati, cioè di uno strumento che consentisse la mappatura del patrimonio mobiliare degli italiani. In Anagrafe Tributaria, infatti, fino a qualche anno fa, erano disponibili i soli dati reddituali e quelli relativi ai patrimoni immobiliari. Oggi non è più così. Anche i dati relativi al patrimonio mobiliare possono essere attinti dall’Anagrafe dei conti e dei rapporti finanziari; un archivio nel quale confluiscono tutte le informazioni sulle movimentazioni dei flussi finanziari.
La super banca dati, costata fino ad oggi oltre 10 milioni di euro, è stata realizzata nel 2011 dall’allora premier Mario Monti con il decreto “Salva Italia” che ha imposto a tutti gli operatori finanziari (Banche, Poste, ecc.) di trasmettere annualmente all’Anagrafe tributaria il saldo e la giacenza media di tutti i rapporti in essere relativi all’anno precedente.
Lo strumento è potentissimo e ciò è emerso chiaramente lo scorso anno in occasione della pubblicazione del rapporto relativo all’anno precedente del nuovo ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente) a cura del ministero del Lavoro e delle politiche sociali[1].
Nell’anno 2015 l’amministrazione finanziaria, per la prima volta, ha stabilito un controllo ex-ante delle autocertificazioni con cui i richiedenti l’ISEE attestano l’ammontare del patrimonio mobiliare detenuto. In virtù delle nuove procedure, l’INPS ha controllato i dati patrimoniali dichiarati, incrociandoli con quelli risultanti dall’anagrafe dei conti e, in caso di discordanza, ha imposto la rettifica delle dichiarazioni prima di rilasciare l’attestazione ISEE. I richiedenti l’ISEE, dal canto loro, sono stati solerti nel rettificare le dichiarazioni, perché l’attestazione consentiva loro l’accesso alle prestazioni sociali a costi agevolati.
Ebbene, dal rapporto citato sono emersi dati del tutto inattesi che hanno sorpreso gli addetti ai lavori: le dichiarazioni con patrimonio nullo sono passate, addirittura, da quasi il 70% al 16%. Qui nel Mezzogiorno, in particolare, sono passate dal 90% al 20%.
Si consideri che nel 2015 l’ISEE è stato richiesto da oltre quattro milioni di famiglie, per un totale di circa 13 milioni di persone.
L’impatto sul Welfare delle nuove procedure è stato enorme: la drastica riduzione del numero dei nullatenenti ha facilitato l’accesso alle prestazioni sociali a coloro che hanno effettivo bisogno, escludendo tutti gli altri.
Mi chiedo. Se lo strumento ha funzionato così bene per l’ISEE, perché non potenziarne l’utilizzo, estendendolo in altri ambiti in cui si svolge la lotta all’evasione fiscale? La nostra proposta presuppone proprio l’utilizzo dell’Anagrafe dei conti in chiave antievasione.
Si consideri che la Corte dei conti in un suo recente rapporto[2] ha scritto che, nonostante questa banca dati sia potentissima, è scarsamente utilizzata, la sua capacità di utilizzo in chiave antievasione è ridotta ai minimi termini.
La Corte ha messo nero su bianco che la legge[3] con cui è stata istituita la banca dati aveva espressamente previsto l’elaborazione, attraverso procedure centralizzate, di specifiche liste selettive di contribuenti a maggior rischio di evasione. Il compito di predisporle era demandato, dalla legge, al direttore dell’Agenzia delle entrate.
Ebbene, a distanza di oltre cinque anni dall’obbligo di elaborare le liste selettive – conclude la Corte – nessun contribuente è stato selezionato quale soggetto a maggior rischio di evasione, «sicché non v’è dubbio che la norma sia stata totalmente disattesa dall’Agenzia».
Queste conclusioni dovrebbero indurci ad una seria riflessione, anche alla luce delle due premesse appena fatte.
Ho concluso, mi scuso per essermi dilungato un tantino e vi ringrazio per l’ascolto.
[1] Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: “Nuovo ISEE, pubblicato il rapporto annuale sul 2015”.Link alla fonte: http://www.lavoro.gov.it/stampa-e-media/Comunicati/Pagine/Nuovo-ISEE-pubblicato-il-rapporto-annuale-sul-2015.aspx
[2] FONTE: Deliberazione 26 luglio 2017, n. 11/2017/G http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sez_centrale_controllo_amm_stato/2017/delibera_11_2017.pdf(pag. 12). Notizia ripresa da Italia Oggi Sette di lunedì 25 settembre 2017 (pag. 4), “Anagrafe c/c, tesoro sprecato”, di Bongi Andrea.
[3] L’art.11 del dl n. 201/2011.