L’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) è un’attestazione che consente ai contribuenti a basso reddito di accedere a prestazioni sociali e servizi di pubblica utilità a condizioni agevolate.
È dunque uno strumento di welfare il cui valore dipende dai redditi e dai patrimoni dei componenti il nucleo familiare. Lo scorso anno è stato richiesto da ben 4,2 milioni di famiglie, per un totale di oltre 13 milioni di persone (più del 20% della popolazione residente).
Nei giorni scorsi il ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha pubblicato il rapporto annuale[1], nel quale ha fatto il punto sulle dichiarazioni dell’anno precedente; il primo in cui hanno trovato applicazione le nuove regole di calcolo dell’ISEE.
Le nuove procedure non consentono più al contribuente di autocertificare l’ammontare del patrimonio mobiliare posseduto, come avveniva negli anni passati.
Il dato oggi viene attinto direttamente dall’Archivio dei rapporti. La super banca dati alla quale gli operatori finanziari (Banche, Poste, ecc) trasmettono ogni anno il saldo e la giacenza media di tutti i rapporti in essere relativi all’anno precedente.
Ebbene, questo nuovo metodo, che di fatto ha imposto un controllo ex-ante sulla fedeltà delle dichiarazioni, ha avuto conseguenze del tutto inattese.
Come per magia, le dichiarazioni con patrimonio nullo sono passate da quasi il 70% al 16%; nel Mezzogiorno, in particolare, sono passate addirittura dal 90% al 20.
L’impatto sulle misure di welfare è stato enorme. Le nuove regole hanno permesso una maggiore equità nella distribuzione delle risorse, in quanto solo chi ha effettivamente bisogno ha avuto accesso alle prestazioni sociali e ai servizi di pubblica utilità.
E’ bastato, quindi, escludere l’autodichiarazione per far emergere un patrimonio mobiliare che fino all’anno precedente non esisteva. Ciò è segno evidente che in passato molti italiani hanno indebitamente beneficiato di sconti e agevolazioni; a meno che non si voglia sostenere che essi abbiano fatto fortuna proprio alla fine dello scorso anno, il che francamente mi pare assai improbabile.
Mi chiedo: se la scelta di escludere le autodichiarazioni e di attingere il dato direttamente dalla banca dati è stata così efficiente ed efficace, perché non estendere tale strategia anche in altri ambiti?
Auspico che in futuro anche le imposte sul reddito siano pagate non più attraverso le dichiarazioni dei contribuenti, ma sulla base dei dati presenti in apposite banche dati. Tale obiettivo sarebbe perseguibile consentendo a ciascun contribuente la possibilità di dedurre dal reddito una quota parte di tutte le spese sostenute per l’acquisto di beni e servizi. In particolare, attraverso l’utilizzo di registratori di cassa, cosiddetti “parlanti”, che trasferiscano le informazioni in apposite banche dati. Gli stessi che oggi sono in uso nelle farmacie. In questo modo il contribuente in occasione della dichiarazione dei redditi dovrebbe solamente confermare i dati presenti nel suo cassetto fiscale; proprio come oggi avviene per le spese mediche e di ristrutturazioni edilizie che sono già presenti nelle dichiarazioni precompilate.
Non mi pare condivisibile la tesi di chi ritiene che i costi di una tale riforma sarebbero insostenibili per le casse dello Stato, ciò in quanto l’emersione del sommerso compenserebbe i maggiori costi connessi alla deduzione delle spese. A tal proposito si consideri che ogni anno sfuggono a tassazione ben 270 miliardi di euro (fonte: Istituto di Ricerca Eurispes); sarebbe interessante verificare quanti di questi denari verrebbero recuperati attuando la proposta sopra descritta.
Un siffatto criterio di tassazione sarebbe utile, non solo per contrastare l’evasione, ma soprattutto per recuperare equità, solidarietà e coesione sociale.
CLETO IAFRATE
Consigliere ARDeP
[1] => Rapporto annuale 2015 su lavoro.gov.it