Va detto che queste soglie quantitative, che derivano da medie di centinaia di paesi diversi con economie e culture diverse, conservano l’aleatorietà degli approcci della curva BARS (Barro, Armey, Rahn e Scully), che sostiene la tesi della inesistenza di un trade off tra crescita del reddito e disciplina fiscale, e pretende di indicare il rapporto ottimo tra spesa pubblica e crescita. La BARS curve vorrebbe la spesa pubblica italiana situata non oltre il 35 per cento del Pil per dare un contributo positivo alla sua crescita. Infatti, si osserva che non basta un alto rapporto debito/Pil a causare l’instabilità finanziaria di un paese fortemente indebitato che cresce. Ciò è valso per l’Italia fino all’inizio degli anni ’90 e vale tuttora per il Giappone, che ha un rapporto debito/Pil doppio di quello italiano, ma ha il vantaggio, rispetto all’Italia, di detenere, al suo interno, l’intero suo debito pubblico.
Tuttavia la caduta della crescita del Pil aumenta il rischio di insostenibilità del debito. E oggi ciò riguarda in particolare l’Italia.
Vi è un altro motivo che rende preoccupante lo stato della finanza pubblica italiana. Il problema di fondo è che la crisi finanziaria, scoppiata nel 2008, ha lasciato ovunque montagne di debiti di dubbia esigibilità che pesano come una zavorra sull’attività economica in tutto l’Occidente, e di riflesso a livello globale.Da quasi un decennio, Stati Uniti, Europa e Giappone alternano profonde recessioni a periodi di crescita stentata, e dopo essere intervenuti con i propri bilanci pubblici a sostegno di sistemi bancari di fatto insolventi, si trovano a fare i conti con un debito pubblico innalzatosi, in media, ben oltre la soglia citata del 90 per cento del Pil. Ora la novità è che il numero dei paesi fortemente indebitati è aumentato in modo deciso: nel 2007 solo due di essi, Giappone e Italia, su 33 economie avanzate, avevano un rapporto debito/Pil superiore al 100 per cento e 3 lo avevano superiore al 90 per cento; nel 2013 questi gruppi di paesi hanno aumentato la loro consistenza rispettivamente a 6 e a 10 e rappresentano più del 50 per cento del Pil dei paesi avanzati.
Le conseguenze che questi debiti potranno ancora avere sull’economia mondiale sono sconosciute, perché una situazione come questa non ha precedenti in tempo di pace. La priorità è quella di ridurre i deficit e i debiti pubblici, ma ciò frena l’economia e ritarda la ripresa. Di conseguenza, in alcuni paesi i redditi e gli introiti fiscali diminuiscono, mentre il debito pubblico continua a crescere e così anche il rapporto debito pubblico/Pil.
Paralizzati nell’utilizzo della leva fiscale, pressati da una disoccupazione sovente elevata, i paesi ricchi dell’Occidente hanno fatto ricorso – in maniera sempre più massiccia – a una politica monetaria espansiva, spingendo i tassi prima verso lo zero, poi oltre in campo negativo, adottando politiche “non convenzionali” di creazione di liquidità note come Quantitative Easing (QE). Ma hanno trascurato la trappola della liquidità che è sia un prodromo della stagnazione secolare, favorita da depressione, deflazione, alti tassi d’interesse reali sul debito, sia l’antecedente della guerra delle valute.