Proprio perché la stagnazione della produttività in Italia ha radici lontane, l’euro non ne ha responsabilità diretta, e anzi, con la creazione dell’euro, esse si sarebbero potute sciogliere in presenza di una politica economica orientata ad allocare le risorse in modo equo ed efficiente. Al contrario, la stagnazione della produttività si è radicata in fattori strutturali dal lato dell’offerta, della domanda, della distribuzione e dell’innovazione. Perciò, è su questi fattori strutturali che occorreva e occorre intervenire. Il calo della produttività, ventennale in Italia e decennale in Europa, è anche figlio della crisi economica e occupazionale seguita alle politiche di austerity, che in Italia sono iniziate con Maastricht e in Europa con la grande crisi finanziaria internazionale seguita da quella europea dei debiti sovrani. Ma si osserva che i guadagni di produttività realizzati in precedenza erano stati troppo spesso drogati da inflazione e svalutazioni del cambio. L’Italia ha avuto una storia quasi trentennale di svalutazioni ricorrenti tra il 1970 e il 1996. Dopo l’esperienza infausta del quinquennio 1987-1992, ovvero tra la firma dell’Accordo di Basilea-Nyborg e l’uscita forzata dallo SME, i governi dovevano sapere cosa facevano quando si sono impegnati a perdere la manovra del cambio.
Se, dopo quattro anni di svalutazioni competitive, tra il 1992 e il 1996, hanno cercato in tutti i modi, aderendo all’UEM, di legarsi nuovamente le mani dietro la schiena con riguardo al cambio e alla politica monetaria, avrebbero dovuto agire di conseguenza nella gestione dell’economia ma non l’hanno fatto. Ora è fuorviante, oltre che dannoso, dare la colpa di quanto è accaduto all’Eurozona o all’UE. Il nuovo contesto prospetta una stagnazione secolare, che si scontra con la trappola della liquidità di Keynes, mentre i mercati globalizzati ignorano la necessità di basic needs di una consistente quota della popolazione mondiale.
Come postilla finale, si nota che, a partire dal 2000, in Italia sono emerse forti tendenze alle revisioni organiche della Costituzione (2001, 2006, 2016), come se i malfunzionamenti dello Stato in Italia avessero avuto un’origine comune, un peccato originale, in una costituzione miope. La tesi che ho cercato di argomentare è invece che l’origine dei malfunzionamenti suddetti non si trova in una costituzione datata e inadeguata, bensì nel disegno politico che ha accompagnato una legislazione ordinaria spesso collusiva e inutilmente complicata. Ma se una revisione costituzionale non era necessaria per il buon governo, essa poteva invece diventare strumentale per una classe politica alla ricerca di un alibi, di un “teorema dell’impossibilità” di percorsi alternativi, di giustificazioni di modi passati e presenti di governare il Paese.
Come postilla finale, si nota che, a partire dal 2000, in Italia sono emerse forti tendenze alle revisioni organiche della Costituzione (2001, 2006, 2016), come se i malfunzionamenti dello Stato in Italia avessero avuto un’origine comune, un peccato originale, in una costituzione miope. La tesi che ho cercato di argomentare è invece che l’origine dei malfunzionamenti suddetti non si trova in una costituzione datata e inadeguata, bensì nel disegno politico che ha accompagnato una legislazione ordinaria spesso collusiva e inutilmente complicata. Ma se una revisione costituzionale non era necessaria per il buon governo, essa poteva invece diventare strumentale per una classe politica alla ricerca di un alibi, di un “teorema dell’impossibilità” di percorsi alternativi, di giustificazioni di modi passati e presenti di governare il Paese.