4. Le politiche di rientro dal debito pubblico
Al contrario di quanto si è voluto far credere, l’esistenza di un debito pubblico enorme e crescente non è senza conseguenze, soprattutto se una parte consistente di esso è detenuta all’estero, e ciò pone il problema dei limiti e della sostenibilità del debito, così come quello dello spiazzamento degli investimenti privati. L’eccesso di debito pubblico è la zavorra dello sviluppo del nostro Paese, la vera causa del declino, un’infezione che agisce in modo contagioso da troppi decenni sulla società italiana deprimendo la vitalità e le speranze soprattutto dei giovani. Tuttavia, con qualche eccezione, i governi italiani degli ultimi quaranta anni non hanno contrastato questa deriva. Questi nodi non si sono formati per caso, sono invece il risultato di scelte di politica economica. Di fatto la classe politica ne è stata la prima responsabile.
In controtendenza con questa linea di pensiero, qualche anno fa, un appello di economisti italiani marxisti e sraffiani aveva formulato la proposta alternativa di non perseguire il rientro del debito, bensì di stabilizzare il rapporto debito pubblico/Pil e destinare al sostegno degli investimenti e del welfare le risorse da impegnare per il rimborso del debito. Si era proposto, in altre parole, di trasformare il debito pubblico italiano in debito irredimibile. Con l’eccezione del quinquennio precedente alla nascita dell’UME, i governi degli ultimi quarant’anni sembrano aver di fatto seguito questa linea nella sostanza. Se si guarda a questo, il decennio in cui la spesa pubblica (espressa in rapporto al Pil) è cresciuta di più non coincide né con gli anni ’70 né con gli anni ’80 o ’90. I dati indicano che il record è del primo decennio di questo secolo, nonostante la discesa consistente dei tassi di rendimento dei titoli di Stato dopo l’avvento dell’euro e le solenni proclamazioni della necessità di ricomposizione della spesa pubblica.
In controtendenza con questa linea di pensiero, qualche anno fa, un appello di economisti italiani marxisti e sraffiani aveva formulato la proposta alternativa di non perseguire il rientro del debito, bensì di stabilizzare il rapporto debito pubblico/Pil e destinare al sostegno degli investimenti e del welfare le risorse da impegnare per il rimborso del debito. Si era proposto, in altre parole, di trasformare il debito pubblico italiano in debito irredimibile. Con l’eccezione del quinquennio precedente alla nascita dell’UME, i governi degli ultimi quarant’anni sembrano aver di fatto seguito questa linea nella sostanza. Se si guarda a questo, il decennio in cui la spesa pubblica (espressa in rapporto al Pil) è cresciuta di più non coincide né con gli anni ’70 né con gli anni ’80 o ’90. I dati indicano che il record è del primo decennio di questo secolo, nonostante la discesa consistente dei tassi di rendimento dei titoli di Stato dopo l’avvento dell’euro e le solenni proclamazioni della necessità di ricomposizione della spesa pubblica.
La soluzione di questo problema evidenzia la necessità di ricordare le condizioni, già citate, necessarie ad invertire la dinamica del rapporto tra debito pubblico e Pil, al fine di disegnare le misure di politica economica necessarie al suo ridimensionamento. Tra queste: 1. l’adozione di politiche per il conseguimento di surplus primari del bilancio pubblico attraverso il progressivo contenimento delle spese improduttive e l’aumento delle entrate, sia tributarie, tenendo conto degli effetti recessivi diversi che ad esse si associano, sia extra tributarie come quelle patrimoniali anche attraverso il federalismo fiscale; le entrate straordinarie che è possibile conseguire, ad esempio, attraverso la privatizzazione di imprese pubbliche, dovrebbero essere destinate alla riduzione del debito pubblico invece che del deficit di bilancio; 2. la rimozione dei nodi strutturali che frenano la crescita del reddito con politiche per l’innovazione, liberalizzazioni, istruzione; 3. il mantenimento della reputazione e della credibilità sui mercati internazionali che consente di pagare tassi di interesse minori sul debito pubblico; 4. una politica di allungamento delle scadenze del debito che sottrae il sistema economico a eventuali forti oscillazioni dei tassi d’interesse. In sintesi, ad eccezione di una manovra di finanza straordinaria di consolidamento del debito, ovvero di un prestito forzoso che consiste nella decisione d’imperio, da parte del debitore, di convertirlo a una scadenza più lunga, al limite indeterminata, decidendone il rendimento, la riduzione del rapporto debito/Pil implica una diminuzione del numeratore, lo stock di debito e/o l’aumento del denominatore, il Pil. Il primo si può ottenere attraverso avanzi di bilancio al lordo degli interessi pagati sul debito, il secondo attraverso la crescita della produttività totale dei fattori, perché le misure di stimolo della crescita suggerite dalla politica fiscale di Keynes possono trovare forti limiti nella difficoltà della politica di bilancio di ricorrere alla spesa in deficit o all’aumento delle imposte in una situazione caratterizzata da crisi economica e forte indebitamento. Ciò lascia spazio a una ricomposizione della spesa pubblica, che va orientata a favore di quella in conto capitale.