Adottare o abbandonare l’Italia indebitata?

ARDeP e SOSUTENTI
(Luciano Corradini) Intervento al Seminario di giurimetria costituzionale
CNEL, 10 6 2016

Il titolo del mio intervento utilizza due verbi affettivamente caldi, e in qualche modo drammatici, per rappresentare sinteticamente la genesi e la fase attuale della storia dell’ARDeP, di fronte al problema del debito pubblico: adozione o abbandono dell’Italia indebitata indicano quanto meno che non siamo stati e non siamo indifferenti nei riguardi di questo problema e delle implicazioni che vi sono connesse per la salute del nostro Paese.
Speriamo che questo primo seminario di giurimetria costituzionale promosso dall’amico Gennaro Baccile, che è stato anche uno dei soci fondatori dell’ARDeP, ci aiuti meglio a valutare queste implicazioni e a dare nuovo slancio e nuove prospettive a un impegno che riguarda tutti, come persone, come cittadini, come lavoratori e come utenti.

La crisi del settembre 1992 e un’iniziativa provocatoria

1. Senza avere particolari competenze economico-finanziarie, nel settembre nero del 1992, preso da sgomento, da rabbia e da volontà di reagire di fronte al pericolo di bancarotta dello Stato e all’inconcludenza del Consiglio nazionale della PI, che non era riuscito a votare un documento indirizzato pubblicamente al presidente del Consiglio dei Ministri (allora Giuliano Amato), feci un atto provocatorio, per dare l’allarme. Iniziai a versare nel conto corrente postale, intestato al Tesoro, il 10% del mio stipendio di docente universitario, con la causale “contributo volontario al risanamento dei conti dello Stato”, e lo feci sapere con una sorta di imbarazzante outing, e con una modesta campagna pubblicitaria autogestita, anche senza disporre delle felpe policrome che vanno di moda oggi. Continuai i versamenti per un anno e mezzo.Gli scopi di questa inizialmente solitaria operazione, così come riuscii a formularli in una lettera a Giuliano Amato, pubblicata anche dal Sole 24 Ore, erano sostanzialmente questi: 1) segnalare il pericolo che si stava correndo, 2) denunciare le conseguenze nefaste dell’evasione, dell’elusione fiscale e della corruzione, 3) esprimere consenso alle pur sgradevoli operazioni del Governo

(che previde anche il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari), 4) chiedere ai politici una gestione più responsabile del bilancio statale; e infine 5) dimostrare ai cittadini tartassati e arrabbiati che qualcuno, non ricco di famiglia, può campare anche con uno stipendio ridotto, se c’è di mezzo la salvezza del Paese. Per la mia carica istituzionale di vicepresidente del Consiglio nazionale della P.I. non era prevista alcuna indennità: il mio stipendio era sui 5 milioni di lire. Il capo garage del Senato, per fare solo un esempio, ne guadagnava circa 15, quasi come un deputato.
Questo dato era sconosciuto ai più e non suscitava scandalo fra gli amici, che si limitavano a brontolare, mentre i privilegiati (la futura “Casta”) si difendevano parlando di diritti acquisiti, che non potevano essere “toccati”. Quando, da sottosegretario “tecnico” alla PI del Governo Dini, proposi ai colleghi di impegnarsi a chiedere che anche i deputati avessero un’indennità ridotta, come la nostra, ottenni qualche sorriso di simpatia, ma poi il governo successivo ottenne il contrario, e cioè che le indennità dei membri “laici” del Governo fossero innalzate a livello di quelle dei parlamentari.