Il senso di questa strategia si ritrova nell’ipotesi che i temi trattati dai partiti politici si siano allontanati molto dagli interessi vitali della produttività, della tecnologia, della disoccupazione, che sono stati agitati fuori del Parlamento, e soprattutto si siano allontanati dai bisogni e dall’identità dei cittadini. Il realismo di questa ipotesi pone un’alternativa: un mutamento paradigmatico che allontani la politica e i partiti dall’individualismo metodologico, oppure un diversa struttura degli incentivi politici che orienti la designazione dei rappresentanti della società civile nelle istituzioni in modo di lasciar fuori chi cerca solo rendite di posizione, ovvero chi impersona lo “Stato egoista”, e di far entrare i portatori di “anomalie”, ovvero chi interagisce virtuosamente con la “mano invisibile”. Perché dovremmo attenderci o perfino parlare di solidarietà, di responsabilità finanziaria o di qualsiasi altro principio o valore positivo se molti politici li ignorano? Una risposta è che questi sono i valori e i principi della nostra Costituzione, e pertanto una società civile che li apprezzi dovrebbe rispettarli e attuarli. Peraltro, giacché l’efficienza è un vincolo e non un obiettivo, come invece è l’equità, non è possibile confrontare i benefici di una maggiore concorrenza e di un maggiore decentramento con i costi associati a perdite di equità distributiva delle opportunità. In Italia l’intento reale delle manovre 2012-2014 e 2013-2015 è stato finalmente quello di invertire la direzione delle aspettative della popolazione da crescenti a decrescenti al fine di porre nuovamente i presupposti di una ripresa economica. Per questo fine l’uso crescente che è stato fatto dello strumento impositivo è stato finora molto più consistente ed efficace rispetto a quello dei tagli di spesa. Ma in un paese fortemente indebitato come l’Italia, il taglio delle tasse, mirato a una maggiore equità e a una ripresa dei consumi interni in un sistema economico disomogeneo sul territorio nazionale e quindi capace solo in parte di sostenere la concorrenza di mercati in gran parte globalizzati, è possibile solo se si taglia la spesa improduttiva. Questa occasione è stata mancata dal governo Monti.
Fino al 2014, la politica economica italiana ha dato luogo a un processo storico che ha fatto dei nodi strutturali un mantra che ha mascherato le responsabilità della classe politica negli ultimi quarant’anni. Gli anni della crisi sono stati l’ultimo spazio possibile per rompere consuetudini e schemi perversi e introdurre le riforme strutturali, rinviate da anni, con lo scopo di ridurre l’incertezza e di spalmare su una platea crescente di agenti economici il suo costo concentrato su alcuni segmenti della società italiana. Ma, negli anni, si è radicato in Italia un principio di irresponsabilità della classe dirigente secondo il criterio per cui nessuno deve rispondere politicamente degli atti che ha compiuto. Questa considerazione vale soprattutto per le parti politiche che, nel ventennio successivo a Tangentopoli, hanno trovato nel cambiamento dei nomi dei partiti un alibi liberatorio con riguardo all’accumulazione di debito pubblico effettuata nel ventennio precedente.
Negli ultimi quarant’anni il debito pubblico non ha mai smesso di crescere e a ciò non ha corrisposto né un miglioramento nella qualità dei servizi pubblici, né spesso la manutenzione del capitale pubblico. Il ruolo dello Stato nell’estendere l’orizzonte temporale delle scelte intertemporali guidate dalla razionalità individuale è stato capovolto. Ora le giovani generazioni pagano, con la disoccupazione, un prezzo altissimo per un debito pubblico di cui non hanno alcuna responsabilità e la cui insostenibilità si percepisce dalla difficoltà di riportarlo al 60 per cento del Pil in venti anni. I giovani abbandonano il Paese che padri e nonni hanno prima spolpato e poi disossato. Le istituzioni, almeno quelle italiane, sono state inadeguate a risolvere questi problemi complessi; per questo è necessario un mutamento paradigmatico che porti la politica e i partiti verso l’interesse generale e il benessere dei governati.
*Università Roma Tre, Professore Ordinario di Politica Economica
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