5. Conclusioni
La crisi del tardo capitalismo non si presta più alle soluzioni proposte negli anni ’70 che presupponevano la possibilità di uno sviluppo lineare. Si pone così il problema di operare una scelta selettiva sul cosa conservare, a livello del sistema economico, del patrimonio fin qui incamerato dalle formazioni sociali passate e presenti. Un primo ordine di controversie riguarda il welfare state. Al di là delle diatribe tra i sostenitori della conservazione e i conservatori neo-liberisti, emerge che il sistema economico non è in grado di superare autonomamente la crisi e l’emergenza. È necessario un indirizzo politico, un programma che miri prima di tutto al pieno impiego e al rientro del debito. È un momento difficile per la disciplina economica ed è inutile negare il senso di scetticismo sulla profondità della comprensione dei fenomeni economici e sul ruolo degli economisti come consiglieri per la politica economica.
Occorre non dimenticare che il declino dell’economia italiana ha origini lontane, risale a ben prima della nascita dell’euro, che la stagnazione della produttività ne è alla base, come pure della dinamica piatta delle retribuzioni, nonché della competitività delle imprese. Ciò spiega la persistenza della stagnazione della crescita della domanda interna e del reddito nazionale. La mancata crescita della produttività è dovuta alle scarse risorse economiche che il mondo delle imprese, private e pubbliche, e il soggetto pubblico in generale, destinano da decenni agli investimenti e, di conseguenza, all’innovazione tecnologica ed organizzativa, all’istruzione e alla formazione.
Occorre non dimenticare che il declino dell’economia italiana ha origini lontane, risale a ben prima della nascita dell’euro, che la stagnazione della produttività ne è alla base, come pure della dinamica piatta delle retribuzioni, nonché della competitività delle imprese. Ciò spiega la persistenza della stagnazione della crescita della domanda interna e del reddito nazionale. La mancata crescita della produttività è dovuta alle scarse risorse economiche che il mondo delle imprese, private e pubbliche, e il soggetto pubblico in generale, destinano da decenni agli investimenti e, di conseguenza, all’innovazione tecnologica ed organizzativa, all’istruzione e alla formazione.
Globalizzazione precipitosa, mobilità dei capitali senza freni né regole ed economia finanziarizzata, guidata da una cultura sempre meno attenta all’accumulazione del debito, hanno portato con sé prima la creazione di bolle finanziarie e, dopo il loro scoppio, il declino della domanda di lavoro soprattutto nei paesi ricchi con modelli di specializzazione produttiva attardati o eccessivamente concentrati sui beni tradizionali. La crisi ha trasferito sovranità dagli Stati nazionali ai mercati finanziari e anche la sovranità residua dei paesi in difficoltà viene ora meno per le regole che, non rispettate ieri, sono imposte oggi dalla necessità di evitare un default. Dopo la mondializzazione liberale, in cui la creazione irresponsabile di debito privato e pubblico e la mobilità dei capitali sono stati i principali responsabili della crisi finanziaria mondiale, si sono evidenziate due minacce sempre più verosimili: il ritorno al protezionismo commerciale e la globalizzazione sociale. Quest’ultima estende le relazioni industriali e le condizioni di lavoro dei paesi emergenti alle società dei paesi avanzati, attraverso la crescita della disoccupazione in forza del teorema di Stolper-Samuelson (S-S) e della price equalization di Heckscher-Ohlin-Samuelson (H-O-S) sempre meno ostacolata dal gap tecnologico. Questo è il dato lasciato in ombra da chi indica come esemplari le exit strategies dei BRICS o quella degli Stati Uniti, senza ricordare che il dollaro è ancora di gran lunga la principale moneta di riserva internazionale e lotta duramente per mantenere questo privilegio.