Nel 1944 Evsey Domar aveva osservato che un debito pubblico crescente è sostenibile solo con un reddito crescente, mentre non è compatibile con una economia in stato stazionario. Questa è stata invece la situazione dell’Italia nell’ultimo ventennio. I risultati positivi acquisiti sul fronte dell’inflazione e dei tassi di interesse non si sono verificati sul contenimento e sulla riqualificazione della spesa pubblica.
Non serve fare sconti sulla verità della situazione economica e finanziaria perché questo comportamento reitera quello perverso quarantennale dell’illusione finanziaria. Altrettanto vale per la deplorevole consuetudine di gonfiare di almeno mezzo punto percentuale la crescita attesa del Pil. Ciò ha consentito di contabilizzare 8 miliardi di Pil aggiuntivi l’anno, per un totale di 24 miliardi per ogni manovra di finanza pubblica triennale, e di migliorare la previsione dei conti pubblici in modo politicamente indolore. La nuvola di oggi si dissiperà presto scoprendo quello che oggi non vediamo ancora e che soprattutto evitiamo di prevedere, come è già accaduto quando non vedevamo l’influenza della globalizzazione sui salari negli anni ’90. La situazione è così grave per la competitività delle imprese, per i redditi da lavoro, e quindi per la domanda interna, che, o si dà priorità assoluta a questa rispetto al consolidamento fiscale, oppure una parte consistente del tessuto produttivo italiano rischia davvero di scomparire, e con esso le imprese che lo compongono ed il lavoro che ne crea il valore. L’intervento prioritario sul cuneo fiscale, che porta ad abbassare il costo nominale del lavoro, ovvero il numeratore del costo del lavoro per unità di prodotto, rischia però di avere “fiato corto”, e di venire presto neutralizzato dalla dinamica della produttività degli altri paesi e che quasi solo a noi manca del tutto.Il nostro paese ha perso 9 punti percentuali di Pil dal 2008 al 2013, in meno di dieci anni, abbiamo perso il 25 per cento di produzione industriale. La disoccupazione è pari a 6 milioni di persone, pari a quasi il 12 per cento delle forze lavoro (quella giovanile ha superato il 40 per cento), conteggiando cassaintegrati e anche chi è fuori dal mercato del lavoro perché scoraggiato e senza speranza di trovarlo.
Non serve fare sconti sulla verità della situazione economica e finanziaria perché questo comportamento reitera quello perverso quarantennale dell’illusione finanziaria. Altrettanto vale per la deplorevole consuetudine di gonfiare di almeno mezzo punto percentuale la crescita attesa del Pil. Ciò ha consentito di contabilizzare 8 miliardi di Pil aggiuntivi l’anno, per un totale di 24 miliardi per ogni manovra di finanza pubblica triennale, e di migliorare la previsione dei conti pubblici in modo politicamente indolore. La nuvola di oggi si dissiperà presto scoprendo quello che oggi non vediamo ancora e che soprattutto evitiamo di prevedere, come è già accaduto quando non vedevamo l’influenza della globalizzazione sui salari negli anni ’90. La situazione è così grave per la competitività delle imprese, per i redditi da lavoro, e quindi per la domanda interna, che, o si dà priorità assoluta a questa rispetto al consolidamento fiscale, oppure una parte consistente del tessuto produttivo italiano rischia davvero di scomparire, e con esso le imprese che lo compongono ed il lavoro che ne crea il valore. L’intervento prioritario sul cuneo fiscale, che porta ad abbassare il costo nominale del lavoro, ovvero il numeratore del costo del lavoro per unità di prodotto, rischia però di avere “fiato corto”, e di venire presto neutralizzato dalla dinamica della produttività degli altri paesi e che quasi solo a noi manca del tutto.Il nostro paese ha perso 9 punti percentuali di Pil dal 2008 al 2013, in meno di dieci anni, abbiamo perso il 25 per cento di produzione industriale. La disoccupazione è pari a 6 milioni di persone, pari a quasi il 12 per cento delle forze lavoro (quella giovanile ha superato il 40 per cento), conteggiando cassaintegrati e anche chi è fuori dal mercato del lavoro perché scoraggiato e senza speranza di trovarlo.
Particolarmente allarmante è il dato sulle condizioni di povertà dei minori: quelli che vivono in condizioni di povertà assoluta sono 1 milione: nel 2011 erano 723 mila, l’incidenza e` salita dal 7 per cento al 10,3 per cento nel 2012 e, nel 2014, ha superato il 12 per cento. L’economia italiana si trova ora tra ripresa e fragilità. Nel 2015 è tornata a crescere per la prima volta dall’avvio della crisi del debito sovrano. I segnali di miglioramento hanno ora iniziato ad estendersi al Mezzogiorno, ma la legalità è condizione per lo sviluppo e questa manca. L’aumento dell’incidenza del debito pubblico sul prodotto, da poco meno del 100 per cento nel 2007 a quasi il 135 per cento nel 2015, è soprattutto il portato della crisi, ma anche dell’incapacità di riqualificare la spesa pubblica. Ciò rende evidente che la direzione di causalità tra debito e declino è biunivoca e rende evidenti sia i rischi ai quali è esposta l’economia di un paese in grave ritardo competitivo che l’importanza di riforme strutturali volte a sostenerne il potenziale di crescita: esse sono tanto più necessarie in presenza di un debito così elevato. Dopo la recessione innescata dalla crisi finanziaria globale, la politica di bilancio ha contenuto il disavanzo nell’ultimo biennio, contrastando la crescita del rapporto tra debito e prodotto. Il saldo primario è tornato in avanzo dal 2011; l’indebitamento netto è stato ricondotto entro la soglia del 3 per cento del Pil nel 2012. Ha avuto un ruolo importante il controllo della spesa primaria corrente, cresciuta in misura modesta in termini nominali fino al 2014 e rimasta pressoché stabile lo scorso anno. Alla fine di un trentennio particolarmente duro per l’economia italiana, dal 2014, la politica di bilancio è divenuta moderatamente espansiva ed è stato reso più flessibile il mercato del lavoro. L’obiettivo strategico del Governo è conciliare il sostegno della ripresa con la riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil. Essa dovrebbe iniziare dal 2016 con l’ausilio delle privatizzazioni ed essere significativa nel 2017. Ma per la ripresa è necessario rilanciare gli investimenti pubblici in un momento in cui le esportazioni mostrano segni di flessione anche a causa della Brexit e del rallentamento della crescita mondiale.