Al di là dei confini, ormai poco significativi, tra prima e seconda repubblica, e tra maggioranze di governo forti o deboli, la politica fiscale italiana ha rivelato l’incapacità del sistema politico di contemperare l’acquisizione e il mantenimento del consenso con il risanamento dei conti pubblici. La discrasia tra esigenze di risanamento ed esigenze del governo, che è stata gestita così a lungo attraverso diverse forme di illusione finanziaria, corrisponde a quella che si ritrova tra interesse generale e interessi sezionali, interesse dei governati e interesse dei governanti, fra trasparenza e mancanza di visibilità resa possibile dall’asimmetria informativa. Ma, al contrario di quanto si è voluto far credere, l’esistenza di un debito pubblico enorme, come quello italiano, non è stata priva di conseguenze negative. Lo Stato sociale, che avrebbe dovuto essere disegnato in modo da ottenere, ove possibile, dagli individui, dalle loro famiglie e dalle loro associazioni i loro sforzi migliori, è divenuto invece la risposta pubblica all’egoismo individuale in nome del consenso politico. In molti casi, esso è diventato un sostituto della responsabilità, della libertà, dell’autocontrollo e della legge favorendo il pericolo dell’indolenza e il nuovo leggero dispotismo profetizzato da Tocqueville, in cui i gruppi di interesse lottano per conquistarsi i favori dello Stato.
Ciò ha condotto anche l’Italia, negli anni ’90, e con almeno un decennio di ritardo rispetto agli altri paesi europei, a decentralizzare, a privatizzare, e a sostituire le burocrazie statali con altre istituzioni della società civile. Invece non si è mai abbandonato lo Stato sociale universalistico, che è amorale, inefficiente e iniquo, creato a fronte di un debito pubblico che è rimasto tra i più elevati in Europa. Si può dire che è mancata la consapevolezza delle implicazioni dell’adesione del Paese alla moneta unica. Infatti, i risparmi in conto interessi sul debito pubblico sono stati utilizzati sostanzialmente per aumentare la spesa primaria e si è persa l’opportunità di orientare il debito pubblico su un deciso trend di diminuzione. In Italia, la rinuncia a politiche di rientro del debito pubblico entro limiti fisiologici è equivalsa alla rinuncia al perseguimento del bene comune.L’eterodirezione della politica economica italiana che si era fatta più stringente con il Trattato di Maastricht si è rivelata insufficiente. Né il Trattato di Maastricht del 1992, accompagnato dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC) del 1997 (reso più efficace dalla sua riforma del 2005), né la cosiddetta strategia di Lisbona lanciata nel 2000 e il downgrading da parte delle agenzie di rating sono riusciti ad orientare in questo senso la politica economica italiana nel ventennio 1992-2012. Per queste ragioni ora l’economia italiana stenta a riprendersi.