Repubblica o Monarchia? Di fronte a questa scelta radicale si trovarono gli elettori italiani il 2 giugno del 1946 con il referendum istituzionale, indetto finalmente a suffragio universale. Con 12.718.641 voti (contro 10.718.502) l’Italia divenne una Repubblica
dopo 85 anni di Regno. Questa scelta è diventata irreversibile nella Carta Costituzionale entrata in vigore nel 1948: l’art. 139, l’ultimo articolo, stabilisce che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, cioè non può più essere cambiata.
La parola “repubblica” proviene dal latino “res pubblica”, “cosa pubblica”, cioè di tutti. Quindi, non è soltanto un’antitesi di “monarchia”, ma un modo diverso di pensare e di agire, una particolare visione delle relazioni tra le persone e le cose. L’aver scelto la Repubblica significa non delegare ad un capo, ma che la responsabilità del bene comune ricade su tutti e su ciascuno. Non si tratta soltanto di un riconoscimento formale, ma di un impegno concreto, che deve manifestarsi nella quotidianità.
Il popolo italiano ha recepito soltanto in modo parziale la cultura repubblicana che già si era manifestata nel Risorgimento. Per Giuseppe Mazzini “la patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale – finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati – finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro, nella miseria – voi non avrete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti. Il voto, l’educazione, il lavoro sono le tre colonne fondamentali della nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate”.
Questa impostazione “comunitaria” è anche il cuore della nostra Costituzione, laddove si dice chiaramente che la Repubblica “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) e che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).
Questa idea di “partecipazione” collettiva è stata rappresentata in modo esemplare da Sergio Mattarella in occasione del giuramento: “Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione. La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno”. Infatti “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” (art. 54). È qui opportuno ricordare le parole pronunciate nel 1995 da don Giuseppe Dossetti, uno degli “autori” della Costituzione: “occorre che le regole costituzionali divengano costume e cioè vengano riconosciute come superiori ad ogni altra norma, e fondanti tutta la legalità del Paese, che altrimenti si troverebbe scardinata nelle sue premesse e in preda a una deriva continua”.
Ascoltiamo ancora le parole di Mazzini, che sembrano scritte oggi: “la patria è una comunione di liberi e di eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. La patria non è un aggregato, è una associazione. Non v’è dunque veramente patria senza un diritto uniforme. Non v’è patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze”.
In questo senso sarebbe oggi fondamentale promuovere un “patriottismo della Repubblica e della Costituzione” come ha spiegato magistralmente Piero Calamandrei: “fra un secolo si immaginerà che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva sulla nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri, di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato un popolo di morti. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la fede e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili ed oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.
Anche Giuseppe Dossetti ci ha lasciato un sorta di “testamento” costituzionale: “vorrei dire ai giovani: non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ’48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa. La Costituzione americana è in vigore da 200 anni, e in questi due secoli nessuna generazione l’ha rifiutata o ha proposto di riscriverla integralmente. Non lasciatevi neppure turbare da un certo rumore di fondo, che accompagna l’attuale dialogo nazionale. Perché, se mai, è proprio nei momenti di confusione o di transizione indistinta che le Costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento”.
Se confrontiamo questo “spirito costituente” con l’insostenibile leggerezza con la quale troppi apprendisti politici negli ultimi anni hanno affrontato i temi costituzionali, dimostrando tanta ignoranza quanta arroganza, trattando la Costituzione come “carta da stracciare” e la bandiera (simbolo dei valori costituzionali) come “carta igienica”, è difficile oggi essere ottimisti sulle prospettive della nostra Repubblica.
Eppure a tutti noi è stato affidato un compito, come ci ha insegnato Piero Calamandrei: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.