La Cassazione rafforza il peso delle presunzioni fiscali

Il sequestro dei beni può fondarsi sulla discordanza tra il patrimonio detenuto e i modesti redditi dichiarati

All’indomani della morte di Tommaso Padoa-Schioppa scrissi un breve articolo in sua memoria (1) nel quale ipotizzavo una tassa di scopo per ridurre il debito pubblico:

una “patrimoniale straordinaria con aliquota personale congrua (APC)”.

Proponevo di mettere a confronto i redditi dichiarati di ogni cittadino negli ultimi 10/20 anni con il patrimonio (mobiliare e immobiliare) posseduto, ovviamente tenendo conto delle successioni ereditarie. Questa correlazione – tra ciò che si è dichiarato di guadagnare e ciò che effettivamente si possiede – assegnerebbe ad ogni singolo patrimonio una percentuale di congruità.

L’aliquota personale (APC) con cui tassare il patrimonio  dipenderebbe proprio da quella percentuale.

I patrimoni detenuti alla luce del sole risulterebbero congrui a questa verifica, pertanto esentati dall’imposta patrimoniale; quest’ultima colpirebbe solamente i patrimoni incongrui, evidentemente nella disponibilità degli  evasori.

Insomma, un provvedimento di “giustizia riparativa” per far pagare chi finora non ha pagato o non ha contribuito in modo adeguato. Adottando questo metodo, infatti, una patrimoniale sarebbe “equa”, perché chiederebbe a ciascun cittadino di contribuire in modo diverso in base alla fedeltà fiscale dimostrata fino ad oggi.

All’indomani della pubblicazione dell’articolo, alcuni lettori, seppur pochi, sollevarono una serie di obiezioni, tutte riconducibili – sia pur con diverse sfumature – al seguente ragionamento: “l’esistenza di un patrimonio incongruo, se lascia ragionevolmente presumere che a monte ci sia stata evasione fiscale, non costituisce di per se prova di quella”.

Si tratta di un ragionamento che, all’epoca della pubblicazione dell’articolo, poteva avere una sua rilevanza giuridica, oggi non è più così.

La Corte di Cassazione il 25 settembre 2014 – con sentenza nr. 39460 – ha respinto il ricorso di un contribuente indagato per il reato di dichiarazione infedele e che per tale motivo ha subito il sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente, di numerosi beni (auto, conti correnti e immobili), alcuni dei quali intestati alla madre ed al fratello.

Il suo tenore di vita era incompatibile con i modesti redditi dichiarati.

La difesa del contribuente ha sostenuto che la fattispecie di reato ipotizzato è strutturalmente incompatibile con l’utilizzo, a fini di prova, delle presunzioni tributarie utilizzate per la contestazione. “Le presunzioni non sono esportabili in sede penale” – ha affermato – dal momento che esse non impongono alcuna condotta al contribuente, ma si limitano ad anticipare una possibile conseguenza di quella condotta. In altre parole la difesa ha sostenuto che  “le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa” (cfr. Cass. n. 7/2000 e n. 36710/2008).

La Corte di Cassazione, operando un cambio di direzione rispetto al precedente orientamento, ha respinto il ricorso e ha stabilito che “le presunzioni fiscali possono essere utilizzate dal giudice in sede di convalida della misura cautelare del sequestro dei conti”.

Le predette presunzioni (oppure i dati di fatto che le sottendono) hanno un valore indiziario per cui – si legge in sentenza -“ben può essere fondata su di esse l’applicazione di una misura cautelare reale”.  I giudici affermano ancora che “la palese discordanza tra i modesti redditi dichiarati e il tenore di vita, come evincibile dall’elenco di beni di sua proprietà, è incompatibile con le disponibilità finanziarie dichiarate al fisco”.  

Auspico che anche il legislatore approvi norme di contrasto all’evasione che, attraverso l’uso di presunzioni fiscali, classifichino i contribuenti in base alla loro fedeltà fiscale.

In fondo, se ogni anno sfuggono al fisco circa 120 miliardi di euro, inevitabilmente ci sono dei cittadini che contribuiscono in maniera inadeguata; e di questo il legislatore non può non tener conto.

Fino a quando non si crea un contrasto di interesse tra il consumatore e il venditore – anche attraverso la deducibilità dalla base imponibile delle spese sostenute – la lotta all’evasione o si combatte sul campo delle presunzioni oppure dovrà attendere tempi migliori.

 

Cleto Iafrate

Consigliere ARDeP (Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico)

Presidente di Sezione FICIESSE (Finanzieri – Cittadini e Solidarietà)

 

(1) LA TASSAZIONE DELLE RENDITE E L’IMPOSTA DI SUCCESSIONE: PRIMI PASSI VERSO UNA RIFORMA FISCALE SERIA E DURATURA (Scritto in memoria di Tommaso Padoa-Schioppa) – pubblicazione on line.