La spesa per gli interessi penalizza le politiche sociali. Più tasse sui ricchi anche per contrastare mafie, corruzione ed evasione fiscale.
“Lo spread è un imbroglio”, ha detto recentemente l’ex presidente del consiglio dei ministri. Un paio di giorni dopo la Banca d’Italia ha reso noto che ad ottobre 2012 il debito pubblico italiano ha raggiunto nuovi record sia in valore assoluto (2.014 miliardi di euro) che in relazione al Prodotto Interno Lordo (126,1 %).
Di conseguenza, l’autorevole quotidiano “Il Sole 24 Ore” riferisce che gli interessi sul debito nei prossimi anni aumenteranno e nel 2012 lo stato italiano dovrà pagare 86 miliardi di euro. Ovviamente ciò è dovuto a due fattori: l’aumento sia dello stock del debito che dello spread, cioè all’incremento della quantità assoluta del debito e all’innalzamento del tasso di interesse sui titoli di stato italiani. In un certo senso è vero che “lo spread è un imbroglio”. Perché se aumentano gli interessi sui Buoni del Tesoro, i risparmiatori sono contenti. Peccato che poi questi interessi alti li dovrà pagare lo stato. Che per pagarli dovrà chiederli ai cittadini, sotto forma di nuove tasse oppure sotto forma di tagli ai servizi. Insomma, se lo spread si alza ci guadagna chi compra i titoli di stato italiani, ma ci perdono tutti i contribuenti. Il debito pubblico crea esattamente questa situazione. Va bene per i creditori (i possessori dei titoli del tesoro) che riscuotono interessi alti, ma va male per tutti gli altri, cioè tutti gli italiani, che devono sostenere anche la spesa per gli interessi, oltre al debito che resta sempre da pagare.
In altre parole più che lo spread è il debito pubblico che è un imbroglio. Un inganno che nella migliore delle ipotesi è stato realizzato da una classe politica irresponsabile, nella peggiore da chi ha scientificamente pianificato un meccanismo che premia qualcuno a danno di tutti. Il debito pubblico favorisce i ricchi e penalizza i poveri, perché di fatto è un sistema di trasferimento delle risorse che accentua le disuguaglianze. L’ultimo rapporto della Banca d’Italia sulla ricchezza degli italiani lo conferma. Così sintetizza la situazione “Il Sole 24 Ore” del 14 dicembre: “Molte famiglie posseggono poco o nulla; poche, invece, posseggono moltissimo. Alla fine del 2010 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 9,4% della ricchezza totale, mentre al 10% dei nuclei familiari più abbienti faceva capo il 45,9% della ricchezza complessiva. Non basta: il 2,8% delle famiglie alla fine del 2010 erano titolari di una ricchezza netta negativa: avevano cioè sulle spalle più debiti che proprietà”.
L’Italia è un paese molto ricco, mediamente ricco. Ma tutti conosciamo il famoso pollo di Trilussa: se ne abbiamo uno a testa, può anche essere che uno abbia due polli e l’altro nessuno. Con la media di un pollo a testa, qualcuno può anche morire di fame. Ciò nonostante è importante sapere che la ricchezza media degli italiani è di gran lunga superiore al debito, sia pubblico che privato. Infatti – sempre in base alle stime della Banca d’Italia – alla fine del 2011 la ricchezza delle famiglie italiane era pari a 8.169 miliardi di euro (la ricchezza lorda supera i 9.000 miliardi, ma occorre togliere circa 900 miliardi di indebitamento privato delle famiglie). Questa ricchezza è formata per due terzi da immobili (quasi 6.000 miliardi di euro) e per la parte rimanente da liquidità e attività finanziarie (tra le quali la parte più rilevante è costituita dal possesso di titoli di stato). Sono anzitutto i cittadini italiani (oltre ai fondi esteri) che prestano i soldi allo stato italiano. In altre parole, fino a 20 anni fa lo stato s’è indebitato perché la spesa pubblica era più alta delle entrate fiscali: si spendeva troppo rispetto a quanto si incassava (e la pressione fiscale era relativamente bassa). Da circa venti anni lo stato italiano chiude il proprio bilancio in attivo, cioè le entrate sono maggiori delle uscite, se non calcoliamo gli interessi sul debito nel frattempo accumulato. Insomma, l’Italia da due decenni sarebbe un paese virtuoso, se in precedenza non avesse accumulato il debito pubblico. E negli ultimi anni siamo nella situazione paradossale che il debito continua ad aumentare, nonostante che il nostro avanzo primario sia migliore di quello della Germania. È il debito che produce debito, in una spirale perversa, che rischia di portare il nostro Paese al fallimento. Un rimedio ci sarebbe. Bisognerebbe anzitutto riconoscere che negli anni ’80 e inizio anni ‘90 gli italiani hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità, indebitando lo stato (siamo passati dal 55% del rapporto debito/PIL nel 1981 al 123% del 1994) e di conseguenza le generazioni successive. Come dire che gli italiani hanno messo le mani nelle tasche della collettività e soprattutto dei giovani. Poi, essendo diventata una situazione insostenibile, dalla metà degli anni ’90 per necessità la situazione è stata riequilibrata, rimettendo le spese in linea con le entrate. Ma a causa degli interessi sul debito lo stato – soprattutto negli ultimi anni – è stato costretto a mettere ampiamente le mani nelle tasche degli italiani. Per altro senza rimuovere il problema alla radice, cioè la presenza di un debito enorme, che comporta interessi enormi da pagare.
Per affrontare seriamente e possibilmente risolvere il problema, gli italiani dovrebbero comportarsi esattamente come farebbe una famiglia. Chi ha di più, contribuisca di più, come già prevede la nostra Costituzione. Se una famiglia avesse un debito di 2.000 euro e disponesse sul conto corrente bancario di 3.000 euro di liquidità, ragionevolmente estinguerebbe il debito e si terrebbe un risparmio di 1.000 euro. Così dovrebbe fare l’Italia, anche perché i più ricchi – in realtà – negli ultimi 40 anni hanno pagato sempre meno tasse. Per due ragioni: l’aliquota Irpef più elevata è passata dal 72% del 1973 al 43% attuale, scendendo continuamente. Non solo: molte tipologie di redditi sono state escluse dalla tassazione progressiva prevista dall’art. 53 della Costituzione: dai redditi per gli affitti alla tassazione sugli investimenti azionari. Mentre lo stato italiano si indebitava sempre di più, i ceti più abbienti hanno pagato sempre di meno. Sia chiaro: l’abbassamento delle tasse per i più ricchi è avvenuto “democraticamente” e con il contributo di tutti. È stato realizzato sia dalle maggioranze politiche di centrodestra che di centrosinistra, con il consenso degli italiani, che di fatto hanno deciso volontariamente di mettersi intorno al collo un cappio che si chiama debito e che si sta stringendo sempre più. Chi oggi dà la colpa alla classe politica è davvero ipocrita.
Tornando alle possibili soluzioni, un’indicazione chiara ci viene da Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo, che ha recentemente detto una cosa semplicissima: la crisi dev’essere pagata dai redditi più alti. Non è una novità, chi studia i flussi economici sa bene che anche durante la crisi del 1929 qualcuno spese energie per ribadire un concetto molto attuale: la crisi viene creata dall’uso spregiudicato e selvaggio degli strumenti finanziari e non può essere pagata da chi lavora da una vita per assicurarsi un’esistenza appena decente. Sembra ovvio, ma in molti paesi come il nostro quando si parla di tassare i ricchi, gli occhi si spalancano come si stesse parlando di favole.
In fondo si tratta di una proposta persino banale: paghi chi può pagare, perché gli altri non possono. Anche perché chi può pagare è proprio chi ha usufruito in modo vantaggioso del debito. Sulle modalità si può discutere, ma la prospettiva dovrebbe essere abbastanza chiara e condivisa. E invece anche sull’obiettivo da raggiungere regna sovrana la confusione. Ai più poveri converrebbe sicuramente che il debito pubblico venisse ridotto il più possibile fino all’azzeramento, in modo da utilizzare l’avanzo di bilancio per realizzare politiche sociali, utilizzando le risorse che invece adesso vengono usate per pagare gli interessi. Al contrario, diversi movimenti e forze politiche che si dichiarano dalla parte dei poveri, si oppongono all’accordo europeo che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio e la diminuzione del 3% annuo del debito in rapporto al PIL. Eppure sarebbe più logico criticare l’Unione europea perché si è arrivati soltanto adesso ad imporre il pareggio tra entrate e uscite e perché la riduzione del debito del 3% annuo è insufficiente, in quanto non è sensato – per i cittadini italiani – rimanere appesi al cappio degli interessi per altri quattro decenni. Il debito va ridotto drasticamente in tempi brevi. È folle persistere ancora a lungo nell’errore, quando l’errore è così evidente.
Per abbattere il debito, oltre ai ricchi, ci sono altre categorie che potrebbero contribuire in modo ancora più consistente: le mafie, i corrotti e gli evasori fiscali. A luglio di quest’anno il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha dichiarato: “Il fatturato della mafia viene valutato sui 140-150 miliardi l’anno. La corruzione in Italia raggiunge 50-60 miliardi mentre l’evasione fiscale ammonta a 120 miliardi di euro. Sommando tutte queste cifre si arriva ad un terzo del PIL nazionale. Cinquecento miliardi di euro circa sfuggono ogni anno completamente alla nostra economia”. In altre parole, in quattro anni si potrebbe azzerare il debito. E se lo stato utilizzasse i soldi dei più ricchi (imposta patrimoniale) per intensificare drasticamente la lotta alle mafie, alla corruzione e all’evasione fiscale? Avremmo sicuramente una società meno diseguale, più pulita e senza debiti. Altrimenti possiamo continuare con l’attuale folle corsa del debito, consapevoli che alla fine il conto – molto “salato” a causa degli interessi – dovranno pagarlo le future generazioni.